OLTRE LA VERTIGINE DELLA FOLLIA (06.06.2019)
1-
Anni di colloqui con psicologi, gruppi terapeutici, psicofarmaci, corsi di yoga e meditazione, non erano bastati a mettere a tacere quel suo urlo costante, che silenzioso gli si bloccava in gola, continuando però a rimbombargli, impetuoso, nella testa.
Trent’anni, di cui almeno la metà vomitati nei cessi di qualche locale nel weekend, a cercar di dimenticare il grigiore di quelle infinite settimane sforzando un sorriso di plastica, da consegnare al cliente di turno dallo sguardo vuoto almeno quanto il suo.
Di una magrezza quasi malsana e dal fare scattoso, era la classica persona considerata di talento, di quelle che avevano per le mani una miniera di diamanti, ma tanto caotici e dispersivi da perdersi in mille sempre nuove attività.
Con la penna era bravo davvero, sapeva mettere le persone al cospetto della propria anima e quando leggevano qualcosa di suo restavano tutti esterrefatti, e chi l’avrebbe mai detto, da uno così? Incarnava alla perfezione lo stereotipo in chiave post-moderna di un maudit della Parigi di inizio ‘900, ma qui, trapiantato in un già ben avviato ventunesimo secolo, con il Mac al posto della macchina da scrivere.
Il vestire trasandato, quei suoi abiti sembravano raccattati con poca attenzione dal banchetto di un mercato delle pulci di periferia in una qualche metropoli europea. Non ancora così logori da essere destinati al cassonetto della spazzatura, su di lui riuscivano ad apparire addirittura eleganti, nonostante lo stile sfrontatamente informale.
La fronte molto ampia, resa ancor più imponente grazie ad una discreta stempiatura, rivelava la sua natura riflessiva, con la mente sempre incastrata in un qualche oscuro ragionamento. Una grande testa rasata su di un corpo esile, ma proporzionato.
Sembra che il talento e l’autodistruzione abbiano una qualche misteriosa relazione, e quanto era bravo a scrivere poesie, o romanzi che non concludeva mai, così il suo modo di portarsi ai limiti di ogni cosa metteva a disagio. Non riusciva a stare senza qualcosa tra le mani o nella bocca, tanto era compulsivo, così bruciava pacchetti di sigarette o masticava gomme o mangiava cioccolato, qualsiasi cosa pur di non restare lì, con il suo vuoto con cui fare i conti. Che mai aveva di così terribile, cosa si nascondeva, dentro a quel vuoto, che lo terrorizzava? Cosa poteva impaurirlo più della prospettiva di una salute rovinata, o peggio, della morte, a furia di droghe, legali od illecite che fossero? Nessuno conosceva la risposta a questa domanda, non la sua famiglia, non gli amici, non una di quelle ragazze che qualche volta si portava a casa a cercar di scaldarsi un po’ il cuore. Nessuno. E forse nemmeno lui.
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«Una quindicina di uomini vestiti eleganti, con abiti scuri ed occhiali neri. Sono tutti attorno a me, in cerchio. Sono impotente, loro sono troppi ed io non mi riesco a muovere. Siamo in un parco che conosco, al paese dove sono cresciuto. Due di loro mi afferrano, io cerco di resistere, di oppormi, ma non ci riesco e loro mi trascinano. Il cerchio si apre, davanti a me c’è un mucchio di terra, hanno scavato una buca! Mi portano a forza sul ciglio di questa fossa profonda quattro o cinque metri, sul fondo c’è una bara scoperchiata con dentro un cadavere. C’è mio nonno lì dentro! Gli uomini cercano di tirarmi nella buca ma io resisto, scalcio, mi dimeno, quindi ne arrivano altri due a dar manforte. Io non riesco a fare nulla e quelli mi buttano là sotto. Mi ficcano nella bara di faccia, con mio nonno sotto di me. Sento la sua guancia gelida premuta sul mio viso, ad un tratto è tutto buio, hanno chiuso la bara, stanno coprendo la buca. Io urlo, mi dispero e mi dimeno, sono nell’oscurità più totale, sono in trappola, mi hanno seppellito vivo!»
«E da quanto rivivi questo sogno?»
«Beh, avevo quattro anni la prima volta, si è ripetuto un’altra manciata durante la vita, ma è soprattutto negli ultimi due mesi che è divenuto ricorrente. Anche quattro volte a settimana».
La dottoressa Morinelli fissava quel giovane di fronte alla sua scrivania con uno sguardo attento, cercando di carpire anche il più piccolo movimento involontario nella sua mimica facciale, un qualche indizio che rivelasse se il sogno appena sentitosi raccontare fosse una rielaborazione attuata dal subconscio, magari di un evento realmente accaduto, oppure il prodotto di paure infantili del paziente che non sono state razionalizzate, e riemergono a conferma della vulnerabilità dell’individuo. Sui trentacinque anni, laureata in psichiatria, la Morinelli era una donna che aveva il suo fascino. I capelli biondicci dai riflessi ramati le cadevano sulle spalle, e dei piccoli occhiali ovali erano appoggiati ad un nasino alla francese spolverato da lentiggini. Appena una manciata. I suoi erano degli occhi verdi penetranti, molto particolari, con delle pagliuzze oro che qua e là facevano capolino nelle iridi. Davano però l’impressione di nascondere qualcosa, quegli occhi intelligenti.
Sì, era cambiato qualcosa nella vita recente della dottoressa Amanda Morinelli, e quelle piccole nuove rughe apparse quasi all’improvviso e che gli occhiali non riuscivano a coprire, sembravano confermarlo. Il suo paziente, un tipo molto percettivo, aveva notato qualcosa di diverso nella sua bella psichiatra, ma non tanto da azzardare delle ipotesi.
«Pensi che questo tuo sogno ricorrente abbia un qualche tipo di relazione con un evento realmente accaduto?» Incalzante la Morinelli poneva la domanda, scontata, che ogni persona almeno un poco intuitiva si sarebbe aspettata in questo caso.
«Non lo so, dottoressa. Ciò che so è che ne rimasi sconvolto. Ho dei ricordi frammentati, io che mi sveglio in un bagno di sudore urlando a squarciagola, con mia madre che accorre e mi trova febbricitante. Da quel giorno ho sempre avuto il terrore per i luoghi chiusi ed angusti, e solo a ripensare a quell’incubo mi viene un nodo in gola e sudo freddo, mi agito»
«Penso che ciò che hai sognato possa nascondere qualcos’altro. Il subconscio usa la strategia del sogno per comunicare alla parte cosciente qualcosa che può essere stato dimenticato, o rimosso. In questo caso probabilmente un evento scioccante, doloroso. Spiegherebbe di certo i sintomi ansiosi che dici di aver sperimentato ripensandoci. Un evento traumatico lascia una traccia profonda nel subconscio di una persona»
«Sta per caso suggerendo che io sia affetto da disturbo post-traumatico da stress?»
«Non ho ancora abbastanza dati a disposizione David per azzardare una diagnosi, certo è che nella letteratura scientifica non vi è neanche un caso di disturbo post-traumatico da stress dovuto ad un incubo, ciò porterebbe a pensare…»
«Non c’è stato nessun evento traumatico che io abbia dimenticato dottoressa, capisco che voi psichiatri dobbiate sempre vedere una relazione tra ogni cosa, ma non potrebbe essere stato soltanto un incubo?
«Non se questo incubo infantile è tornato a tormentarti in maniera ricorrente negli ultimi mesi, come tu hai detto poco fa. Per questo è opportuno indagare se vi sia un evento sommerso che lo avrebbe provocato». Il sopracciglio destro della dottoressa si era leggermente sollevato mentre pronunciava quell’ultima frase, come ogni volta che si sentiva infastidita. Questo però David non lo sapeva, ma avrebbe imparato a conoscere la sua psichiatra sotto aspetti che non avrebbe mai immaginato a quel tempo.
Mentre lei compilava la scheda di valutazione di rito, gli occhi del ragazzo erano puntati in un punto imprecisato del tappeto persiano, velati e fuori fuoco, nascondevano il tumulto interiore di cui in quei momenti era vittima. Di che razza di evento traumatico che avrei rimosso stava parlando? Continuava a ripetersi tra sé e sé che non vi era nulla di cui non si ricordasse, aveva sempre avuto una memoria di ferro, almeno fino a quando non iniziò con le droghe. Quella si legge troppi manuali ed articoli di psichiatria. Nonostante tutto ciò che si potesse ripetere, non era troppo convinto neanche lui di quello che aveva vissuto da bambino, e così il suo sguardo andava a posarsi ritmicamente a caso sui soprammobili dello studio dove si trovava, quasi a cercare in quel posto qualche indizio, per andare a recuperare un qualsiasi ricordo potesse spiegare il tumulto emotivo che era costretto a vivere, che lo aveva portato da una psichiatra a trovare risposte a domande che ancora non era stato in grado di formulare pienamente. Andava a ritroso con la mente, ma uno spesso muro di gomma era l’unica risposta riuscisse a trovare, e vi rimbalzava contro inesorabilmente ad ogni tentativo.
A quel tempo, tutti i sintomi del suo mal di vivere non sembravano seguire alcun ordine, nonostante tutta la sua capacità d’introspezione ed il suo tatto psicologico non riusciva a trovare alcun nesso che legasse i pezzi di quel caotico puzzle del suo stato psichico, in una continua fuga da un costante stato d’inquietudine.
Come poter vedere ciò che è stato occultato? E se anche avesse visto, come poter accettare?
«A martedì prossimo allora»
«A martedì, grazie dottoressa».
«Mi raccomando, se c’è qualche problema, chiamami. E prendi con regolarità l’antidepressivo!»
«Lo farò dottoressa, arrivederci» e chiusa la porta dietro di sé, sparì dalla vista della sua psichiatra. Non lo rivide per mesi.
Nonostante tutto, ci continuava a provare. Non voleva gettare la spugna, non voleva perire sotto i colpi di mortaio del suo più grande nemico, il giovane uomo che lo guardava in faccia ogni mattina attraverso lo specchio con un’espressione a metà tra l’odio e il disgusto: l’ombra di se stesso. Sembrava esserci in lui un altro lui, speculare e contrario, che continuava a sabotare ogni suo progetto, ogni sua iniziativa. Sarà stata la sua insicurezza? La paura di fallire? Che cosa, la mancanza di perseveranza? Forse un po’ di tutto questo, forse. Non aveva detto alla sua dottoressa che nell’ultimo periodo aveva ricominciato alla grande con le droghe, materiale di cui Torino era piena, non le aveva detto che i suoi farmaci del cazzo li prendeva a settimane alterne rendendoli totalmente inefficaci, che a dire il vero anche quando era stato diligente non aveva mai avvertito benefici di una qualche rilevanza con gli antidepressivi. Gli unici prodigi della medicina per cui aveva una predilezione erano lo Xanax, che assumeva un paio di volte al giorno al bisogno, e la ketamina, la mitica arma di riserva degli irriducibili haters della vita, la sola in grado di sconnetterti a volontà dall’esistenza con un black out controllato di due ore, e che con una dose minore dà la possibilità di avere dei soffici cuscini protettivi tra di sé ed il mondo, ad ammortizzarne gli spigoli, a dissiparne le amarezze, il tutto per soli quaranta euro al grammo. Certo i problemi alla vescica e le cistiti varie erano un buon deterrente contro un utilizzo troppo frequente, e Dio solo sa quanto siano dolorose, per questo cercava di contenersi, almeno con quella. Non si considerava propriamente un tossico, diciamo che i requisiti per definirsi tale erano molto difficili da soddisfare secondo i suoi parametri.
La sua vita seguiva un ordine alquanto monotono, il lavorare in una libreria poi non faceva che estremizzare questa monotonia e l’apatia per l’esistenza che ne derivava. Certo, amava i libri, erano la sua più grande passione, ma ciò che amava era leggerli o scriverli, parlarne anche, ma di sicuro avrebbe fatto a meno di trovarsi ad ascoltare controvoglia una signora attempata tessere le lodi di un romanzo rosa, ed anche dello spingere alla vendita l’ultimo fantastico best seller erotico in grado di mandare in visibilio tre diverse generazioni di donne sessualmente frustrate contemporaneamente. C’erano giorni in cui avrebbe volentieri dato fuoco a quella libreria, non prima di aver voluttuosamente torturato quello stronzo dello store manager per delle ore con degli spilli infilati sotto le unghie. Riccardi, così si chiamava, gli rendeva la vita impossibile, sembrava ci provasse gusto a riprenderlo ogni tre per due ed ogni volta con una scusa diversa, il cartellino con il nome era storto, sorridi di più, dovresti smettere di fumare perché i clienti sentono la puzza di fumo. Fottiti, era questo che gli urlava con la voce della mente, era questo che comunicava il suo sguardo non appena il boss lo chiamava in ufficio, ma una volta trovatoselo di fronte era costretto a mordersi la lingua, aveva bisogno di quel lavoro, un estremo bisogno. Nonostante tutto l’odio che gli sembrava di provare, una volta a casa si ripeteva che non poteva avercela tanto con il suo capo, in fondo era solamente un altro topo in gabbia, proprio come lui. Non era cattivo, era solo stronzo. La psichiatra gli aveva consigliato di andare al di là dell’apparente antipatia che provava verso Riccardi, forse il suo problema era un altro, forse era con l’autorità che aveva un qualche problema, e naturalmente con chi la rappresentasse. Certamente non gli era mai andato a genio nessuno volesse imporgli alcunché, i suoi professori se lo ricorderanno bene senza dubbio ancora oggi.
La sua casa era un piccolo monolocale in un quartiere malfamato, ma a pochi passi dal centro. Malfamato o no a lui non importava, l’affitto era basso, poi accanto alla casa c’è pure un enorme mercato, una bella zona in cui vivere, non ci si può annoiare da quelle parti, con il tempo si comincia a non fare più caso nemmeno agli spacciatori. Era divertente notare lo sguardo perplesso non appena rispondeva alla domanda su dove vivesse, pronunciava Porta Palazzo e come per magia l’inquietudine si stampava in faccia ai suoi interlocutori, a parte i tossici, i tossici sembravano divertiti.
Nonostante fuori dal portone di casa l’atmosfera ricordasse un’apocalisse zombie, all’interno era carina, anche se un po’ scura. Diciamo che non era proprio il ritratto dell’ordine, ma quando glielo si faceva notare lui rispondeva sempre: «Il disordine è un ordine superiore dove solo esseri superiori sanno districarsi». Citare Einstein fa sempre guadagnare punti, si diceva.
Alla sera dopo il lavoro, a giorni alterni, era solito mangiare in un qualche pidocchioso fast food o in un cinese che chiamare ristorante sarebbe sembrato più di un complimento, per poi tornare a casa e prendersi una buona dose di ketamina ed andare fuori dai confini dell’universo conosciuto. Una volta tornato vedeva il mondo sotto una luce differente, era tutto così interessante e vivo e si ricordava perché assumesse questo dissociativo così di frequente: la vita riusciva ad apparirgli addirittura attraente guardata attraverso la lente della ketch. Ravvivato da un nuovo entusiasmo prendeva il pc e cominciava a scrivere, il cosa dipendeva dal momento e dal periodo, articoli che spaziavano dalla droga e la ricerca psichedelica, ovviamente, alla geopolitica. Quando si sentiva particolarmente ispirato componeva poesie che non leggeva a nessuno, di solito di carattere misticheggiante o dal forte impegno sociale; di quando in quando veniva solleticato da una buona idea per un libro, quindi vi si buttava a capofitto non arrivando però mai oltre metà, bloccandosi nelle incertezze e nelle paure che frenavano qualsiasi suo progetto, e tra un giorno di lavoro e l’altro, intercalati dalla droga, se ne dimenticava accusando il fallimento dell’impresa solo dopo qualche tempo.
Non riuscirò mai a concludere un cazzo, si diceva amareggiato, si odiava per questa sua caratteristica, ma come poteva cambiare lo stato delle cose? Ogni sua idea era come una minuscola formica nell’enorme formicaio della sua mente, dove ogni altra formica faceva ciò che gli pareva, senza struttura e senza ordine, totalmente inefficace, “fanculo Einstein” avrebbe detto. Si sentiva talmente privo di energia, svuotato, ci doveva pur essere una ragione, dove andava a finire tutta la sua energia? E dire che era un tipo vulcanico da ragazzino è un eufemismo. Non lo sapeva, la droga forse, diceva a se stesso, e per quanto questo possa sembrare assurdo, la possibilità che fosse la droga a privarlo delle forze lo rassicurava. Non bastava però, non bastava a togliergli il gusto rancido dalla bocca, il disgusto per se stesso, non bastava a placargli l’angoscia che premeva sul petto bloccandogli a metà il respiro, non bastava a fargli fermare le gambe nel letto quando scalciavano e lui si voltava di scatto, come se quel movimento repentino potesse cancellare il pensiero che lo torturava, un dannatissimo senso di catastrofe era lì ad alitargli sul collo, costantemente. Sto impazzendo, esco fuori di testa, queste erano le esatte frasi che riecheggiavano dietro la sua fronte in quei momenti. Quella sera, proprio come tante altre, è proprio così che si concluse la sua insignificante giornata, e quando il torpore sopraggiunse si trovò a dover sostituire un emozione del tutto irrazionale, erano anni che David non riusciva a darsi una spiegazione, quella sensazione che solo il sonno riusciva talvolta ad eludere, era paura. Cadde in un sonno senza sogni, profondo e pesante, di quei sonni che al risveglio c’è bisogno più di qualche minuto per ricordarsi di essere vivi. Forse successe qualcosa, o forse il suo stato onirico gli stava tirando un qualche scherzo poco divertente, fatto sta che qualcosa lo svegliò impetuosamente alle tre del mattino e lo scosse a tal punto da farlo urlare dal più profondo delle viscere e mettersi a sedere sul letto accendendo in fretta l’abat jours, con una tale sensazione d’urgenza che pareva ne andasse della stessa vita. Era scioccato a tal punto da tremare come una foglia in una tormenta. La gola completamente secca, nelle orecchie un suono acuto ed elettrico non riusciva a coprire il rimbombo del suo cuore impazzito. I palmi delle mani, i palmi delle mani sembravano andare a fuoco preda di un tale prurito, avrebbe voluto strapparsi la pelle, se solo avesse potuto. Un’altra crisi allergica, che diavolo ho mangiato? Gli capitavano oramai un po’ troppo spesso questi attacchi allergici in quell’ultimo periodo. Alzatosi dal letto per andare a prendere gli antistaminici nell’armadietto del bagno si accorse di restare in piedi a fatica, le sue gambe sembravano di burro. Devo aver avuto un’altro incubo, strano, non ricordo nulla eppure sono così scioccato…
Giunto in bagno, la persona che vide nello specchio quasi lo spaventò, gli occhi spalancati e cerchiati da profonde e scure occhiaie, la bocca semiaperta e disidratata con labbra secche piene di piccole crosticine formate dalla pelle morta. Prese in fretta dall’armadietto due pastiglie dal blister degli antistaminici ed uno Xanax da due milligrammi e si portò le pastiglie alla bocca per ingoiarle. Lo sguardo poi gli cadde sulla sua mano, sul palmo, la fronte si corrugò perplessa. La parte inferiore della mano era completamente gialla, sporca di una strana sostanza simile a quel famoso disinfettante, il mercuro cromo. Anche l’altra mano era completamente imbrattata, non riusciva proprio a capire come si fosse macchiato a quel modo. Bevve un gran sorso d’acqua dal lavandino del bagno per ingollare le pastiglie e si lavò energicamente le mani, ma quel colore non ne voleva sapere di andarsene via. Tutto questo aveva qualcosa di inquietante. Non volle spendere altro tempo quella notte per venire a capo di pensieri che, con tutta probabilità, erano causati dalle distorsioni della mente dovute dalle droghe, i farmaci, il poco sonno. Era stato un periodo particolarmente stressante quello. Si diresse verso il letto, e sdraiatosi cercò di scansare qualsiasi accenno di ragionamento logico, operazione tutt’altro che semplice per lui. Cercò di calmarsi, di ricomporsi, ed aspettò che gli antistaminici calmassero quell’aggressiva orticaria e che lo Xanax lo accompagnasse dolcemente nel sonno, in quello stato di non coscienza a cui tanto anelava e che per raggiungere il quale faceva salti mortali. Devo darmi una calmata con la droga, fu questo l’ultimo pensiero prima dell’oblio.
-3-
Michael era un tipo in gamba, forse un po’ più drogato di quanto avrebbe voluto ammettere, ma era un buon amico per David.
Si erano conosciuti sette anni prima ad una festa in una fabbrica abbandonata nell’hinterland milanese. Erano ragazzini al tempo, ma non così inesperti come ci si potrebbe aspettare. Avevano avuto da discutere sulla qualità di una ketamina londinese che Michael gli aveva venduto. A David non era piaciuta per niente, e dopo un po’ di battibecco l’altro lo invitò in un camper di suoi amici dove gli offrì una botta della sua ketch personale, K Fifty la chiamavano, dall’India. Fu un viaggio memorabile, i due si trovarono sulla stessa lunghezza d’onda, ed oltre ad aver trovato un nuovo contatto per una ketamina costosa ma ottima, David trovò anche un amico, e quei sette anni di frequentazione dimostravano che era un ottimo amico.
Se lo era ritrovato sotto casa al ritorno dal lavoro:
«Che fai, non ricordi? Oggi è martedì, dobbiamo vederci col nostro “amico”». Aveva la fronte umida, sembrava concitato…
«Oh sì, sto benissimo, grazie di avere chiesto, e tu come stai?» Lo riprese ironicamente David.
«Sì, hai ragione, ciao David tutto a posto?»
«Va… Respiro, giusto?»
«Mi mancava il tuo ottimismo, no dai, seriamente, c’è qualcosa che non va?»
«No, sta tranquillo. Non è niente. Comunque sì, ricordavo che era oggi, ma ero sovrappensiero, sai una giornata stressante, il lavoro…»
«Capisco, bella merda, dai un giorno finirai il tuo libro e lo stronzo del tuo capo dovrà scervellarsi per vendere abbastanza delle tue copie e far quadrare i conti della sua libreria del cazzo».
«Beh, un’immagine molto carina» disse con ironia. Poi continuò «Spero di riuscire a finirlo, prima o poi».
«Con calma, non ti corre dietro nessuno. Tu scrivilo bene e le cose si aggiusteranno in qualche modo, devono». Era questo che gli piaceva di lui, riusciva sempre a trovare il modo di motivarlo, un motivo per cui essere fiducioso, gli ricordava che non c’era solo merda al mondo, grande Michael.
Dovevano andare dall’altra parte della città, in Crocetta, era lì che viveva il loro “amico”, Ema, il tipo che gli vendeva la ketamina. Era uno dei quartieri buoni, uno di buona famiglia. Aveva avuto la fortuna di non doversi mai preoccupare dei soldi, quindi viveva la vita a suon di viaggi di tre mesi alla volta in giro per il mondo. Nonostante questo, il giocare col proibito gli piaceva, era quella la vera droga per lui, ed anche se non ne aveva bisogno cercava sempre di essere fornito, si sentiva importante. In effetti aveva un bel giro, almeno un paio di volte all’anno andava in India e quando tornava lo ritrovavi magicamente con i suoi bei due chiletti di High Quality Ketamine.
Non riuscivano a capire come aveva fatto a non finire ancora dentro in tutti quegli anni, con tutti quei giri, forse perché non aveva bisogno di giustificare i soldi che gli giravano per le mani.
Se la facevano sempre a piedi l’andata, quando andavano da lui. Un’oretta di camminata eh, ma ormai era un rito per loro, sì, un rito propiziatorio. Erano convinti che fino a quando avrebbero fatto il loro scaramantico giretto a piedi per andare a fare il pieno di polvere, e solo di martedì, gli sbirri non li avrebbero mai presi. E poi amavano girare per il centro, raccontarsi i fatti loro, fermarsi a chiacchierare con i conoscenti che incontravano.
«David, dimmi la verità, che cos’hai ultimamente? Ti vedo strano, hai sempre lo sguardo perso nel vuoto, ridi ancora meno del solito, e già era una cosa rara. Che ti prende? C’è qualcosa che non mi dici?»
«Ma no minchione, è che non dormo bene, faccio un sacco di incubi…»
«Incubi? Che tipo di incubi?»
«Ma sì dai, sai quello che facevo da ragazzino, con i tipi in giacca e cravatta che mi seppellivano nella bara con mio nonno, su a Trento, al paesino in cui sono cresciuto…»
«Già, ricordo, agghiacciante…»
«Sì, non è proprio divertente»
«Che significa secondo te?»
«Non ne ho la più pallida idea, la psichiatra dice che probabilmente nasconde qualcosa, cioè, secondo lei il sogno copre una vera esperienza che ho vissuto, molto traumatica, ma io penso si sia bevuta il cervello, non c’è niente che io non ricordi…»
«Ma come fai a dirlo? Come puoi sapere di non aver vissuto qualcosa che non ricordi? È logica amico»
«Beh, in effetti… Sai, c’è un’altra cosa, ma è strana forte»
«Non mi spavento, David, noi siamo strani forte! Che c’è, spara…»
«Stanotte è successo qualcosa, boh, forse sono fisse mie, ma i conti non mi tornano… Non lo so, mi sono svegliato in pieno attacco di panico, ero un bagno di sudore con un’orticaria pazzesca ai palmi delle mani, ma non ricordavo nulla, nessun incubo, niente di niente…»
«E che c’è di strano? Non sei nuovo alle allergie, e poi sei stressato David, l’attacco di panico sarà dovuto a quello»
«Sì, ok, ma c’è dell’altro. Quando sono andato in bagno a prendere gli antistaminici mi sono trovato le mani imbrattate di una strana sostanza gialla, tipo disinfettante, e non se ne andava neanche a lavarle! Guarda, si vede ancora, anche se il colore è un po’ andato via per fortuna»
«Sei sicuro di non aver toccato nulla prima di andare a dormire?»
«Al mille per mille Michael, avevo fatto la doccia mezz’ora prima di mettermi a letto, mi sono anche fatto la barba, me ne sarei accorto, fidati»
«Vorrei aiutarti amico, ma non ho idea di cosa possa essere, davvero» Non mentiva di certo il suo migliore amico, ma aveva intravisto qualcosa nel suo sguardo, sembrava turbato. Ma da che cosa? Forse c’era qualcosa che non gli diceva? Da che aveva memoria, non ricordava di neanche un’occasione in cui Michael gli avesse nascosto qualcosa. Ad ogni modo, se non si ha una soluzione e non si riesce a trovarla, continuare a spremersi il cervello a cercarne una è non solo inutile, ma addirittura controproducente. Il trucco è fingere di avere già la soluzione, rasserenarsi e fare la vita di sempre convinti che tutto si aggiusterà, e come d’incanto la soluzione arriva. Questo metodo funziona eccome, diciamo che era il suo abituale modus operandi per risolvere i problemi.
Erano rimasti in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, a cercar di riordinare le idee. David si era perso, come faceva sempre, nell’osservazione dei passanti, dei particolari che li caratterizzavano, le scarpe, gli occhiali, una spilla sulla borsa, e si divertiva a tentare un identikit psicologico di ognuno di loro, si inventava le possibili storie delle vite di quei perfetti sconosciuti, materiale prezioso per uno scrittore. Chissà che qualcuno di loro non sarebbe diventato il protagonista di qualche suo romanzo, o meglio ancora, l’antagonista. In qualche modo, forse a causa del suo ostinato dilettantismo, i protagonisti delle sue storie erano sempre una certa versione di lui, più o meno visibile agli altri, più o meno fedeli alla sua maschera di facciata ufficiale che offriva al mondo. Era assorto in questi vaghi ragionamenti, più precisamente nell’idea di un personaggio femminile psicopatico, una donna dai capelli ramati e dalle labbra sottili che glaciale e risoluta perseguita il protagonista di una storia ancora da scrivere, quando Michael interruppe il corso dei suoi pensieri:
«Cosa sai della dmt?» L’aveva provata un paio di volte, ma forse aveva sbagliato le dosi, o il modo di fumarla, e non aveva provato un granché. Certo una bella botta allucinogena, ma non così qualitativamente differente da un viaggio di LSD, ad esempio.
«Non un granché. L’ho fumata in qualche rara occasione, ma devo averne presa troppo poca, un viaggio come tanti altri insomma»
«No David, qui ti sbagli di grosso. Devi averne sicuramente preso troppo poca, perché il viaggio che ti fa fare quella roba è una cosa pazzesca!»
«Può essere… Ho letto che il nostro cervello produce la dmt quando dormiamo, nella fase REM, quella dei sogni»
«Certo, ma anche negli stati mistici o di premorte, e quando moriamo per altre quarantotto ore siamo un laboratorio biologico clandestino di dimetiltriptamina, quella droga è davvero un enigma. Sai, quelli che tornano da un viaggio come si deve con la dmt raccontano di cose incredibili…»
«Ad esempio?»
«Ad esempio che entri in nuovi reami, arrivi in altri mondi, dimensioni differenti»
«Anche con la ketamina…»
«Sì certo, ma qui sto parlando di vere e proprie realtà parallele, quasi palpabili! Un viaggio molto tipico di dmt è quello in cui si entra in contatto con delle entità, vere e proprie entità aliene, o spiriti, alle volte»
«È una cosa davvero forte, ma che ne sai che non sono solo illusioni prodotte dalla droga?»
«Io non lo posso sapere, ma chi le ha viste quelle entità ne è convinto, assolutamente»
«La prossima volta ne prenderò di più, voglio andare fino in fondo alla tana del bianconiglio e vedere cosa c’è»
«Penso che sarà molto presto David, da Ema c’è una sorpresa che ci aspetta!» Michael era così emozionato all’idea di quella roba, gli luccicavano gli occhi. Nonostante fosse alto più di uno e ottanta e ben piazzato, sembrava un bambino concitato, continuava a togliersi una ciocca dei suoi capelli castani dalla fronte come faceva sempre quando era eccitato.
Chiaccherarono ancora un altro po’ prima di giungere a destinazione, in quel fantastico appartamento del loro fornitore. Un tipo con dei lunghi dread che arrivavano fino oltre le spalle ed un sorriso smagliante gli aprì la porta e li abbracciò calorosamente. Era proprio un personaggio Ema.
-4-
David era cresciuto in un paesino di mille anime in una valle di meleti in Trentino. Era quello che viene volgarmente definito un bastardo. Il padre, un napoletano che aveva avuto problemi con la legge, finito dentro ad un mese dalla sua nascita, aveva lì per lì deciso di non dare il proprio cognome al figlio, scelta di cui negli anni si pentì purtroppo amaramente. Non che avesse avuto chissà quale altisonante genealogia, ma avrebbe potuto anche essere il più malfamato cognome di tutta Italia, a David non importava, quel rifiuto lo aveva però segnato nel profondo, più di quanto fosse disposto ad ammettere.
Sua madre era una donna vivace ed espansiva, non di certo una poco di buono, ma a giudicare dai suoi gusti in fatto di uomini aveva un debole per le persone che stanno dalla parte sbagliata della legalità, il fascino del male. Fece sempre il possibile per non venire corrotta da quel male, e non essere coinvolta in traffici portatori di conseguenze che non aveva nessuna voglia di sopportare, ma per quanto volesse stare alla larga dai problemi, il suo cuore raramente era della stessa opinione.
Lei veniva da una famiglia umile ma onesta, una famiglia lavoratrice di quella valle. Dev’essere stato questo il motivo per cui provava tanta repellenza all’idea di una vita piatta, a cucinare cene per un marito sempre in ritardo a causa di mal pagati straordinari in fabbrica.
Dopo il padre di David, condannato per quella storia ad otto anni in un carcere francese, sua madre si innamorò di un’altro uomo, ugualmente napoletano, ugualmente criminale. I suoi traffici spaziavano dalla ricettazione alle truffe allo stato, ma a lei non importava. Ciò che importava è che non ferisse le persone e che fosse un padre adottivo affettuoso con David, e lo era, lo era eccome. Da quella storia ne nacque anche un bambino, Samuel, il suo piccolo e disperato fratellino. Non ebbe la fortuna nemmeno lui di essere cresciuto dal proprio padre, che morì in un tremendo incidente d’auto quando aveva solamente due anni. A volte la vita sa essere amara con un bambino.
David era un mezzosangue quindi, certo, sempre di sangue italiano, ma chi capisce la cultura dello stivale può benissimo immaginare cosa significasse crescere negli anni novanta in un paesino dell’estremo nord ai piedi delle montagne, in terra di lega, con il sangue napoletano nelle vene. All’epoca vi era non più di una manciata di extracomunitari su cui sfogare le proprie fisse suprematiste, nella sua scuola un solo bambino non era italiano, quindi ce la si prendeva ancora con i meridionali, anche se solo di sangue, e per metà. Sangue napoletano e criminale, delitto imperdonabile per un bambino che avesse avuto la cattiva idea di portarlo nelle vene, e lui lo era.
Ha sempre sognato di fuggire da quel posto, bellissimo se visto in cartolina o dagli occhi di un turista della domenica, ma una vera e propria prigione all’aria aperta per chi avesse anche solo minimamente un innato desiderio di novità, di conoscere cosa ci fosse al di là di quelle frontiere rocciose che delimitavano la valle. Più cresceva e più quel luogo gli andava stretto, vedeva in esso tutto ciò che di negativo e limitato ci possa essere, ai suoi occhi di adolescente. Provinciale, ignorante, chiuso, e soprattutto pieno di una tale arroganza, la presunzione di essere il posto migliore del mondo, ed i suoi abitanti le persone “giuste”, le uniche.
Verso i quattordici anni cominciò con alcol, e ne scorreva ieri come oggi davvero a fiumi in quei luoghi, e canne. Furono quelli gli anni che formarono il piccolo David sulla strada dell’abbandono, già lì si poteva intravedere l’uomo che sarebbe diventato, estremo, oltre ogni limite, sempre.
Fu in grado di cominciare ad allontanarsi da lì attorno ai sedici anni, dapprima solamente per brevi periodi, che si dilatarono via via sempre di più. Quando per miracolo, o forse più per rendere fiera sua madre, riuscì a diplomarsi, se ne andò definitivamente. I sedici anni coincisero anche con la sua vera e propria iniziazione con le droghe, mdma, cocaina, ketamina e molte altre, che esplorò tutte ad una ad una, soffermandosi qualche tempo su ognuna e poi passando ad altro, senza restare davvero incastrato in una dipendenza esclusiva, sarebbe dovuto passare ancora qualche anno per quella. Lui si ostinava a vederla come libertà, altri vi hanno letto la parola tossicomania in quella giovane vita, e non avevano torto. Passò per varie città e, come per le droghe, si soffermò su di esse ma cercando di non restarne mai bloccato. Fu però Torino la città che in qualche modo lo stregò, forse perché è stata per degli anni l’epicentro italiano dei rave illegali, l’ambiente che prediligeva. Ironicamente, lì trovò un minimo di stabilità e vi si adagiò. Una città aveva interrotto la sua corsa, non sarebbe passato troppo tempo prima che una droga facesse lo stesso, prendendolo nei suoi tentacoli.
Aveva una vita troppo sregolata da riuscire a mantenersi un lavoro “normale”, almeno in quei primi anni, ma furono quei rave a cadenza settimanale nei quali si ritrovava a portargli sotto al naso la soluzione ai suoi più immediati problemi. Avrebbe unito l’utile al dilettevole. E come avrebbe potuto altrimenti permettersi tutte quelle droghe, le feste e i chilometri che si doveva percorrere per raggiungerle, un posto dove vivere, il cibo? Iniziò con pochissimo, qualche grammo, ma riuscì nel giro di non molto tempo a ritagliarsi il suo pezzettino di mercato alle feste, senza alcuna mira espansionistica, intendiamoci, ma riusciva perlomeno a coprire quelle mille spese che il suo stile di vita comportava. La sua offerta era andata diversificandosi, dalla speed ai trip, dalla gangja alla cocaina, e naturalmente la ketamina. Offerta diversificata, ma il netto delle entrate era giusto sufficiente, o poco più, a garantire i suoi vizi, che per quanto non fosse ammessa nemmeno a se stesso, una politossicomania aveva i suoi costi. A lui però andava bene così, i soldi non gli interessavano, non troppi perlomeno.
Naturalmente, avendo droga sempre a disposizione, era difficile per uno come lui riuscire a porre un confine netto tra la parola “festa” e la parola “vita”, oramai i due termini erano interscambiabili. Con l’aumentare del suo piccolo giro era però sopraggiunto un effetto collaterale a lui inaspettato: più cresceva il consumo di droghe e più la passione per la musica, le donne e le feste andava scemando. Tutta la sua vita stava progressivamente conformandosi ad un appiattimento generale, il grigiore andava a divorarsi quel poco di voglia di vivere che ancora gli restava. C’erano giorni in cui non riusciva a trovare le forze nemmeno per alzarsi dal letto, e passava le ore a chiedersi se davvero erano le forze che gli mancavano, o forse semplicemente un motivo, un motivo valido per alzarsi, e per cosa poi?
In quei giorni il telefono squillava costantemente, in maniera insistente e molesta. La gente era affamata, e se ne sbatteva di lui e della sua fottuta voglia di rimanere a dormire. In quei momenti, l’unica cosa che riuscisse davvero a scuoterlo e a tirarlo fuori da quell’oscura caverna della sua stanza, era lo stendersi una riga di bianca direttamente sul comodino. Inizialmente era come bersi un doppio espresso per iniziare la giornata, e una volta trovate le forze finiva lì, ma il tempo passava e le piste diventavano sempre più frequenti, sempre più grosse.
In maniera abbastanza subdola e silenziosa, perché la bianca non fa rumore quando ti prende, la cocaina si stava mangiando pezzi sempre più grandi di quella che con un po’ di sforzo potremmo chiamare la sua vita. Smise di andare alle feste e così cambiarono i suoi clienti, se prima erano giovani più o meno sbandati in cerca della polvere giusta per farsi il weekend, ora erano cocainomani sudaticci e giallognoli con le narici infiammate, o peggio ancora, tossici di crack in preda a manie di persecuzione in proporzione di tre su cinque. Persone che sarebbe riduttivo definire moleste, persone in una condizione la quale la parola “rispetto”, rispetto degli spazi altrui, della privacy e della vita altrui, aveva perso qualsiasi connotazione di significato, se l’ottenimento della loro busta dipendeva malauguratamente da questo.
La sua vita si stava fottendo, era in caduta libera nell’oblio più profondo e non sembrava esserci modo di fermare l’ovvio finale tragico che vedeva davanti a sé.
L’ennesimo effetto avverso aveva fatto la sua comparsa in quella giovane esistenza: la quasi totale impossibilità di dormire. Non era però un’insonnia qualunque, del tipo comune che ti fa rigirare nel letto incapace di rilassarsi abbastanza da riuscire ad assopirsi, no, la sua insonnia era qualitativamente differente. Lui era terrorizzato al pensiero di prendere sonno. Un terrore giustificato razionalmente da alcunché, un costante stato d’allarme le cui angosce insinuavano i propri artigli nel più profondo del suo corpo, quasi a contendersi lo spazio con gli atomi stessi.
Poteva ragionevolmente essere un effetto susseguente l’abuso di coca, questo lui lo sapeva, ma ciò non sembrava avere nessuna capacità di frenarlo. Preferiva l’abisso della cocaina all’ignoto oblio della caduta nel sonno, della vulnerabilità che esso comportava e che sentiva in qualche modo non essere nella posizione di potersi permettere. Aveva perso completamente il controllo, era solo, da mesi non riceveva una telefonata della madre o del fratello, i suoi amici erano tutti legati alla droga e, onestamente, bisognosi d’aiuto non meno di lui.
Un pomeriggio d’inverno, senza dare sconsideratamente troppo peso alla cosa, si procurò una bottiglia di ammoniaca al supermercato di fronte. Aveva deciso di passare allo step successivo della sua carriera tossica, questo almeno non mi farà dormire, si era detto. Aveva torto, non è fisiologicamente possibile non dormire mai, ma almeno le ore di sonno, che erano in realtà più propriamente una sorta di collasso, si erano limitate a tre per notte. Mentre di giorno vendeva droga, le sue notti erano diventate un continuo fumare pietre bianche con la pipa o una bottiglia e prepararsi da sé il prodotto, ovvero cucinare cocaina con ammoniaca e cucchiaio, così ne toglieva il taglio, e trasformare ciò che in chimica viene definito un “sale”, la cocaina cloridrato, nella forma più pura di cocaina base, il crack.
Stava poco per volta letteralmente scomparendo, tanto era magro, ma ai suoi clienti non importava un granché, sempre che se ne fossero accorti. La cosa importante era che ricevessero la loro bramata polvere, erano tutti così, tutti meno uno. Quello era un cliente “particolare”, e non solo perché sembrava di tutto fuorché uno che si incontra con uno come David per la cocaina. Era un uomo maturo, un po’ avanti con gli anni, lo stereotipo personificato dell’insospettabile. Era un docente di filosofia all’università di Torino, un tipo carismatico dai capelli bianco argenteo. Gli era piaciuto subito, a pelle. Veniva almeno una volta ogni due giorni, lo caricava sulla sua bmw familiare e dopo un giro dell’isolato e l’essersi preso il suo paio di grammi lo faceva scendere davanti il portone di casa. Si vedevano con regolarità, non aveva mai sgarrato, così come non aveva mai fatto David, nemmeno un ritardo.
Il professore aveva assistito al declino fisico del suo giovane pusher, via via sempre più evidente, fino al punto in cui la sua coscienza non gli permise di rimanersene zitto per l’ennesima volta. Era giovanissimo quel ragazzo, avrebbe potuto benissimo essere suo figlio, se non addirittura nipote!
Cominciò allora un lento tentativo di avvicinamento, dapprima molto cauto, poi via via sempre più confidenziale. Una volta avevano pippato assieme, direttamente nell’auto sulla custodia dell’album dei pink floyd, e presi dall’euforia erano stati in un pub a bersi una birra. Stava iniziando un’amicizia, atipica certo, ma comunque equilibrata. Erano entrambi due persone intelligenti e, cosa che nessuno dei due amava ammettere, sensibili. Su David la personalità di quell’uomo esercitava un forte ascendente, colto, acuto, paterno. Forse, proprio a causa della totale assenza di una figura che esercitasse il ruolo di padre nella sua vita, le parole del professor Solani riuscivano a bypassare i suoi sistemi di sicurezza. Erano in grado di andare oltre il suo cinismo ed oltre l’apatia che cercava, come a proteggersi, di ostentare. Inizialmente fu difficile riuscire a conquistare la fiducia di quel giovane perduto, ma la costanza di quell’uomo, il suo tatto e la sua sensibilità, erano arrivate laddove nessun altra persona aveva mai osato arrivare, tanto vicino da riuscire a porgergli, in aiuto, una mano.
I loro incontri si fecero più frequenti, spesso quando non aveva lezione il professore si presentava alla dieci del mattino alla sua porta con brioche calde ed un pacchetto di Lucky Strike, le sue sigarette preferite. Era riuscito ad ottenere tanta confidenza quanto serve per poter svegliare una persona entrando in casa sua senza preavviso, dribblare lestamente la sua figura ferma alla porta, quindi senza troppe difficoltà dirigersi in cucina a preparare una moka di caffè. In tutta onesta, David appariva in quei momenti più come un internato di un reparto psichiatrico in stato catatonico, che il ragazzo che era abituato a conoscere.
Il professore rimase stupito dalla quantità di libri che trovò in quella casa. Sparsi un po’ ovunque in maniera del tutto caotica i volumi facevano bella mostra di sé in quel piccolo appartamento. Un plico di circa una decina di questi era impilato in una colonna sbilenca sul comodino accanto al letto, i cui titoli cambiavano col passare delle settimane, altri invece stavano sulla televisione o ancora sul bracciolo del divano. La maggior parte era però disposta, come ci si aspetterebbe, in una grande libreria che prendeva tutta una parete. Lesse nomi di autori quali Noam Chomski, Huxley, Orwell, Tolstoj, Oscar Wilde, Baudelaire, Hugo… Rimase piacevolmente sorpreso, il nostro professore.
David avrebbe ringraziato il cielo per il resto della propria esistenza, per aver posto quell’uomo sul suo cammino. Fu la prima vera persona a credere in lui, fu la prima persona che lo convinse che poteva aspettarsi di meglio dalla propria vita. Avevano anche discusso, una volta sola. Edoardo, così voleva essere chiamato il professore, col suo nome di battesimo, aveva raccolto da terra uno di quei tanti tra quaderni o taccuini di cui l’appartamento era pieno. Aprendolo aveva trovato pagine e pagine di un inchiostro nero, una scrittura quasi illeggibile, ma era riuscito a decifrare qualche poesia e qualche frammento di racconto di cui facilmente intuiva la paternità. Erano scritti molto personali, e quando David uscì dal bagno e lo trovò immerso nella lettura dei propri preziosi scritti provò un intensa rabbia, che con tutte le forze cercò di mantenere entro i limiti del raziocinio. Ci fu un breve alterco tra i due, l’atmosfera si caricò di ostilità per qualche istante, ma se dovessimo individuare il preciso momento in cui nella vita di David si accese una prima timida luce di speranza, la prima flebile spinta alla vita di un seme troppo a lungo rimasto in una terra morta, sterile a causa dell’inverno, sarebbe certamente quello. Il professore aveva trovato in quella consumata Moleskine sporca di cenere e caffè le impronte di ciò che Hillmann, per dirla con i greci, chiamò Daimon, la vocazione che latente opera ad insaputa del suo portatore al fine di poter un giorno esprimersi, diventando ciò che realmente era chiamata a diventare. A parer di Edoardo, a ragione, David era del tutto inconsapevole dell’eccezionalità del suo dono e delle responsabilità che esso comportava. Dopo nemmeno un mese di frequentazione Solani aveva trovato la chiave di volta, il punto portante sul quale la nuova vita di quel giovane avrebbe potuto esser costruita. «Se vuoi vivere, scrivi!» tuonò il professore.
Fu quello il momento in cui divennero realmente alleati, quei due.
Vissero la loro amicizia come una cosa rara, grazie ad Edoardo aveva cominciato davvero a credere in se stesso e nelle sue abilità di scrittore, che queste potessero toglierlo da quell’ambiente malsano che era il suo, pieno di sostanze e persone tossiche. Quando lui propose a David di tagliare con la cocaina, di farlo assieme, David dovette fargli presente quale fosse il suo grande impedimento: lui con la cocaina ci lavorava, e l’averla sempre a portata di mano avrebbe reso l’impresa titanica per chiunque. Al ché il professore fece una proposta al giovane:
«Anche se ti trovassi un lavoro discreto, dove non ti spacchi la schiena e sei in mezzo ai libri tutti i giorni? Almeno fino a quando non sfonderai davvero con la tua scrittura, se Dio vuole».
«In quel caso -rispose il ragazzo- beh in quel caso sarebbe diverso».
«Allora smetti con me, conosco molto bene il capo filiale della libreria in stazione Porta Nuova…»
«La Speltrinelli?»
«Quella. Sono sicuro che con due mie paroline magiche lui ti assumerà. Avrai uno stipendio sicuro, sarai in regola, niente più paura della polizia o dei tossici in astinenza».
«Sarebbe un sogno per me, e un gran sollievo».
«Però la mia condizione è questa: devi smettere con la cocaina. Se vorrai fare festa con qualche pastiglia o quella tua ketamina e saprai gestirti per me è ok, ma basta con quella bastarda di coca, che ci ruba tutta la gioia di vivere».
«Affare fatto, ci sto!» Disse entusiasta David.
«Ma devi scrivere, scrivi la tua storia, inventa la storia di un ragazzo con problemi di droga che riesce ad uscirne».
«Una grande idea, vecchio!»
«Non chiamarmi vecchio, sai che lo odio!»
Risero entrambi di grasse risate, erano euforici. David aveva ancora solo un paio di grammi di cocaina, avrebbe dovuto rifornirsi il giorno stesso, ma la decisione presa cambiò tutto. Il suo amico tirò fuori duecento euro, e li porse a David.
«Ti compro questi ultimi due grammi, poi potrò farne ciò che voglio».
«Ma non volevi smettere?»
«Tieniti i soldi e dammi la coca».
Il giovane porse all’amico i due grammi, lui li prese e gli chiese di seguirlo. Andò in bagno e butto i due pezzi nel gabinetto, poi disse:
«Lo sciacquone lo devi tirare tu, questo suggellerà il nostro patto». David ridette metà dei soldi, cento euro ad Edoardo, aggiungendo:
«Questa è una cosa che facciamo in due, quindi devo pagarla anche io» e tirò lo sciacquone. Si sentivano così liberi e sollevati.
L’indomani David cominciò il suo romanzo, ne aveva già cominciati altri ma non ne aveva concluso nessuno. Non poteva sapere che anche quello avrebbe dovuto vedere molti anni prima di essere concluso. Il destino aveva ben altri piani in mente, ed il suo primo vero romanzo concluso sarebbe dovuto essere un altro, di cui David, al tempo, non ne aveva neanche una misera idea in testa.
Fu la scrittura a guarirlo, il lavoro in libreria, la vicinanza del suo strano amico, ma ce la fece, eccome se ce la fece, e così anche il professore, quello fu un rapporto che giovò ad entrambi. Non riusciva però a capire, il ragazzo, quale concatenazione di eventi aveva portato un professore universitario a divenire suo amico intimo e complice. Forse non avrebbe mai voluto scoprirlo, ma le cose andarono diversamente.
-5-
L’entrata nella vita di David da parte di Edoardo Solani fu, a detta di molti, provvidenziale. C’era da chiedersi come mai un docente universitario in filosofia avesse tutta quella necessità di cocaina. E non solo, cosa avevano in comune, cosa aveva a che spartire con un giovane pusher un uomo della sua cultura e della sua età? Una sola risposta avrebbe risolto entrambi i quesiti, e venne il giorno in cui il ragazzo porse al suo mentore domande che, avrebbe di lì a poco capito, si sarebbero rivelate assai delicate.
Fu un giorno in cui i due ebbero una discussione, a casa di David, sulle motivazioni personali che li portavano entrambi tra le braccia di mamma cocaina.
«Questo non è un discorso che amo affrontare» rispose il più anziano dei due.
«E perché mai? È una domanda molto semplice: perché alla tua età ti facevi tutta quella coca, ma soprattutto, perché cerchi di aiutare uno come me».
«Sai, ragazzo, c’è ormai da molti anni in me una ferita che sanguina, putrida, ed infetta tutto ciò che le sta intorno. L’unica cosa che mi dava l’illusione di poter sopportare quel dolore, era la coca». Al ché, restando in tema di metafore, David rispose:
«Ma se hai una tale ferita, è di un medico che hai bisogno, non puoi pensare di automedicarti così. So che non hai voglia di parlarne, ma credo ti farebbe bene».
«Credo tu abbia ragione, purtroppo. Per me è un’agonia ripensare a ciò che ha scatenato tutto questo, non so che cosa mi abbia fermato dall’uccidermi, e l’aiutare te ha a che fare in qualche modo con tutto questo».
«Una sorta di espiazione?»
«Un motivo per riuscire a continuare a guardarmi allo specchio al mattino e, detta sinceramente, l’aiutare te mi fa stare meglio e mi aiuta a fare a meno della coca».
«Mi fa piacere sentire questo, anche se fa male sentire in te tutto questo dolore, e sì, ho tanti problemi, ma posso prendermi il carico dei tuoi per una volta».
Il professore, seduto sul divano, si prese la testa tra le mani e fece un gran sospiro. Sul tavolino faceva bella mostra di sé un piatto con della cocaina, una tessera sanitaria ed una carta fedeltà di un qualche supermercato. Edoardo si stese una riga abbondante e senza troppi complimenti utilizzò il suo strumento d’argento ed aspirò. Diede due colpi di tosse e si buttò nel racconto anima e corpo:
«Io ho avuto tre figli, ma solo due di loro sono potuti crescere e diventare adulti. Avevamo avuto per ultima una bambina, un dolcissimo esserino biondo, Cassandra. Eravamo al settimo cielo quando nacque, sai, gli altri due sono due maschi, avevamo sempre sognato una bambina, e finalmente Dio ci aveva donato questa opportunità. Ero solito ogni domenica pomeriggio portarla in un grande parco a giocare. Lei si divertiva un mondo, e scorrazzava in maniera quasi esasperante da un gioco all’altro, tanto era vivace. Ora sullo scivolo, ora l’altalena, ora il dondolo. Era instancabile. Proprio come me alla stessa età. Si poteva leggere la gioia sul suo viso, ma sono sicuro che l’avrebbero certamente scorta anche sul mio, ero raggiante in quei pomeriggi nel vederla sana e felice. Quella domenica pomeriggio in particolare però, la gioia dipinta sui nostri volti ci avrebbe abbandonati per sempre. Su di noi cadde la sventura.
Dopo aver passato qualche ora serena in mezzo al verde, venne il momento di dover tornare a casa. Avevo parcheggiato il fuoristrada nel parcheggio del parco, un grande piazzale sterrato contornato da enormi platani. Arrivammo alla Land Rover, che era già ricoperta di foglie ingiallite dall’autunno.
Le dissi ‘Amore mio, ora resta qui ferma accanto a me e non ti muovere, mi raccomando’, lei mi rispose con quella vocina squillante, ‘sì Papà, resto qui!’
Dovevo sistemare il seggiolone e passavo sempre qualche minuto a litigare con le cinture di sicurezza. Quanto odiavo quell’affare. Dopo che Angela, mia moglie, mi aveva ripreso perché lo avevo montato sul sedile del passeggero, avevo preso l’abitudine di metterlo dietro, quando in realtà sarebbe bastato disattivare l’airbag accanto al guidatore per renderlo sicuro. Ricordavo ancora chiaramente la scenata che mi aveva fatto, mi sembrava di averla ancora lì a dieci centimetri dalla mia faccia che mi urlava contro:
«Che stai facendo? È pericolosissimo! Se fai un incidente l’airbag le esploderebbe nella schiena, la faresti volare!»
Cassandra intanto se ne stava appoggiata alla portiera anteriore a non far niente. Io non mi accorsi di nulla, in quel momento ero chinato a cercar di raccogliere un berretto incastratosi sotto il sedile, quando sentii i passi della piccola che correvano sulla ghiaia e la sua vocina esclamare: “scoiattolo!” Di scatto uscii dall’auto urlando, “Cassandra vieni qui!”
Il tempo, quei pochi istanti in cui successe tutto, una misera frazione di secondo, si era dilatato, come a rallentatore. Sarò torturato per tutta la mia vita da quella scena, la mia piccola Cassandra che correva a braccia aperte verso l’animaletto, quel maledetto scoiattolo, e mi vedo come dall’esterno che urlavo con quanto fiato avessi in corpo cercando di balzare verso di lei, afferrarle la maglietta e tirarla a me, ed un SUV grigio che, in uno schiocco di dita, si portava via per sempre la mia bambina».
In quel momento Edoardo non seppe trattenersi, e cominciò a singhiozzare e a piangere di un pianto straziante. David gli porse dei fazzoletti, lui si pulì il naso, si asciugò gli occhi, poi tra i singhiozzi continuò:
«Quel grosso Cheyenne non ebbe nemmeno il tempo di sfiorarlo il freno, tanto improvvisamente la mia piccola si gettò in mezzo al vialetto, nonostante andasse ad una ridicola velocità. Quando frenò era già troppo tardi - e qui le parole gli uscirono con uno sforzo tremendo, come strappate da una mano che se le era andate a ripescare direttamente in gola- trascinando il piccolo corpicino sotto le ruote bloccate dai freni».
David volle fargli fare una pausa, gli portò un bicchiere d’acqua con uno xanax, lui lo prese ed ingollò acqua e pastiglia in un paio di sorsate, e continuò lo straziante racconto.
Caddi in ginocchio, penso che avessi il colorito di un fantasma, i miei occhi erano sbarrati davanti alla visione più truce di tutta la mia vita. La testa della mia Cassandra, il mio piccolo angioletto, quella testolina dai capelli biondi dal profumo di fiori, schiacciata dalle ruote anteriori di quel maledetto Porche».
David chiese:
«E dall’auto? Si fermarono? Non immagino anche per il guidatore che trauma dev’esser stato -e diceva queste parole empatizzando totalmente con quel suo ambiguo amico, ora che capiva tante cose, piangendo come un bambino di lacrime enormi e salate- ti aiutarono?»
«Dall’auto scese un uomo fuori di sé, col terrore dipinto in viso, distrutto da un senso di colpa che era troppo grande per poter essere razionalizzato lì, sul momento. Gli ci vollero degli anni. Qualche volta mi chiama ancora. Era in lacrime, urlava e si agitava con le mani nei capelli, non sapendo che fare. Dietro di lui, ammutolito e spaventato, scese dall’auto un ragazzino di otto anni, suo figlio. Passanti ed altre persone che erano al parco vennero ad aiutarci, che Dio li benedica, richiamati dalle urla. Presero in mano la situazione perché sia io che Antonio, l’uomo che l’aveva investita, non eravamo nello condizioni d’intraprendere alcunché. Allontanarono Michele, il ragazzino, oddio, adesso è un ragazzone di un metro e ottanta. Eravamo inebetiti, quasi anestetizzati tanto era acuto ed incomprensibile il dolore che ci aveva tramortiti. Molte vite si distrussero quella domenica d’autunno, frantumate in un solo istante. Un singolo, fottuto, istante».
-6-
L’essersi confidato col ragazzo su quella questione così intima, aveva portato il loro rapporto ad un diverso grado di profondità. David aveva accolto in sé quell’enorme dolore e lo aveva, per così dire, fatto proprio. Fu una complicità tra i due, in un certo qual modo. Edoardo non era più solo. Da lì in avanti si videro spessissimo, si facevano forza a vicenda, anche e soprattutto per quella decisione che assieme avevano preso: smettere. Non è facile liberarsi da quella puttana, il suo ricordo si insinua nella tua testa, ti costringe lo stomaco, le mani sudano, le pupille si dilatano e conati di vomito ti spaccano da dentro. Questa è la vera dipendenza da cocaina, molto più fisica di ciò che la maggioranza delle persone crede, ma ce la fecero, insieme.
Il professore, come un padre premuroso, seguì David in quel percorso che da crisalide lo avrebbe trasformato in farfalla. Gli consigliò di farsi seguire da un terapeuta e così lui fece, trovò una psichiatra con la quale si trovò benissimo. Parlò poi col tipo della Speltrinelli, così il ragazzo fu assunto. Lo vedeva diventare realmente uomo, e spendere i suoi momenti liberi al computer, scrivendo interminabilmente.
David era diventato la sua famiglia, dopo che la moglie lo aveva lasciato i rapporti si raffreddarono anche con i suoi figli, era un uomo solo, per questo aveva affidato alla coca la gestione dei suoi sentimenti, oltre che per Cassandra.
Passarono mesi, non sono poi molti paragonati ad una vita intera, ma Edoardo divenne un elemento chiave della vita di David, guardando in prospettiva. Purtroppo il fato aveva altri piani per lui.
Dagli accordi presi, avrebbero dovuto vedersi quel mattino, ma il professore non venne. Il giovane non si preoccupò subito, gli telefonò ma non ricevette risposta, al ché lasciò un messaggio in segreteria. Niente. Riprovò a chiamare, pensò che forse voleva starsene da solo per un po’, ma i giorni passavano e lui non si faceva sentire, quindi David si preoccupò seriamente e andò da lui a casa. Suonò più volte, nessuno rispose, allora urlò il nome del professore verso le finestre, ma niente. Fece talmente tanto baccano che venne il portiere a chiedere spiegazioni:
«Sto cercando il professor Solani, non mi risponde al telefono da giorni» disse David al portiere.
«Mi dispiace ragazzo, ma il professor Solani è morto giovedì, infarto, il funerale è stato celebrato ieri. Mi dispiace davvero».
David sbiancò istantaneamente, non chiese spiegazioni, ringraziò balbettando e se ne tornò a casa. Nella sua testa, mentre camminava, continuò l’eco di ciò che il portiere gli aveva detto. Edoardo era morto, non si poteva tornare indietro. La voglia di fermarsi da un nigeriano e comprarsi del crack divenne fortissima, ma gli venne in mente l’immagine del professore con espressione di disappunto, forse lo immaginò, forse immaginò la sua reazione, fatto sta che sentì sussurrare a quell’immagine mentale di Edoardo la frase: non buttare via tutto così. Resisti. Fu quello che fece, cominciò a correre per Torino verso casa, con le lacrime agli occhi. Una volta nel suo appartamentino si buttò sul divano e pianse lacrime amare. Perché tutta quella sofferenza nella sua vita? Doveva resistere, resistere alla tentazione di spegnere il dolore in una fumata di crack. Glielo doveva questo, avevano fatto un patto. Corse in bagno e vomitò tutto il pranzo nel gabinetto.
Si sdraiò poi nuovamente sul divano, fumò nervosamente le sue sigarette, arrivando praticamente al filtro, che emanava uno sgradevole odore di plastica bruciata.
Cocaina
Cocaina
Hai bisogno di cocaina.
Questi pensieri disturbanti lo ossessionavano, l’ansia gli strozzò in gola il respiro, al ché, nonostante ciò che lui volesse davvero, nonostante i propositi, le promesse fatte e tutta la determinazione che aveva mostrato sino a qualche ora prima, cedette. Prese centocinquanta euro da un vasetto in cucina, dove nascondeva i soldi, e scese in strada a cercare il primo nero che incontrasse. Non gli ci volle molto a trovare ciò che cercava, fu presto di ritorno a casa e come preda di una nevrosi preparò con una bottiglia la vecchia e cara amica pipa. Fumò crack continuativamente, si fermava solo quando era a corto di cenere da mettere sulla carta stagnola della pipa improvvisata. Appena le quattro sigarette accese in contemporanea e tenute in piedi in equilibrio sul tavolino fornivano la cenere necessaria, lui ricominciava. Fumare la base di coca aveva sortito il suo effetto, non farlo pensare, non farlo pensare ad Edoardo. Corse nuovamente in bagno a vomitare, era troppo fatto, quindi decise di fare una pausa. Camminava istericamente avanti e indietro per il piccolo appartamento, avanti e indietro, avanti e indietro. Stava impazzendo, l’immagine di Edoardo in una bara ricominciava a tormentarlo finché, nella sua folle camminata per casa non inciampò sul tappeto e rischiò di cadere faccia a terra, ma grazie al mobile del soggiorno evitò questa eventualità. Fece cadere posacenere e cellulare ed una moleskine, che caduta a terrà si aprì su una poesia politica che aveva scritto. Non ci fu ragionamento, il pensiero corse veloce indipendente da lui, e il ricordo della voce di Edoardo che rimbombò nella sua coscienza: “Se vuoi vivere, scrivi!”. Si ricordò del patto che assieme avevano suggellato. Non pensò, il suo corpo si mise in azione automaticamente, sapeva benissimo cosa doveva fare. Prese i due pezzi di crack che non erano ancora stati fumati e corse in bagno, buttandoli nel gabinetto e tirando lo sciacquone. Poi fu la volta della bottiglia, svuotata dell’acqua e distrutta. Prese dei fogli da un cassetto in camera sua ed una penna e si mise a scrivere, scrisse ad Edoardo. Tutte le parole che non aveva potuto dirgli, i ringraziamenti più sentiti della sua vita, delle frasi di affetto, mise su quei fogli tutto il sospeso che era rimasto fra loro, e fu liberatorio, fu catartico. Lacrime scendevano copiose da un viso serio e statuario. Stava dicendogli addio, o forse solo arrivederci.
Edoardo era stato importante per lui, fondamentale.
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Questa volta non avrebbe fallito. Questa volta, il dosaggio sarebbe stato adeguato. Voleva vedere fin dove riusciva ad arrivare, quali erano queste dimensioni altre d’esistenza che la dmt riusciva a svelare?
Erano ormai passati molti anni dalla morte di Edoardo, ma David non riusciva a non provare in fondo alla sua anima un senso di vergogna ogni volta che utilizzava droghe pesanti. Almeno con la cocaina ho smesso per sempre, grazie a te amico mio.
Aveva riordinato in fretta ma con cura l’appartamento, socchiudendo le imposte ed accendendo la lampada di sale ed un incenso, aveva donato al suo piccolo appartamento un’atmosfera quasi magica. Per una volta non voleva lasciare nulla al caso.
Si sedette comodamente sul divano, con una pipa e la bustina ermetica della changa davanti a sé, sul tavolino. La changa, così viene chiamato quell’esotico mix variopinto di erbe sacre ed aromatiche addizionate alla dmt e a qualche altra diavoleria, il passe-partout per l’iperspazio.
Nonostante l’atmosfera in qualche modo aiutasse, non era in grado di rilassarsi come avrebbe dovuto. Avvertiva un fastidioso senso di ansia proprio nel suo petto. Cosa avrebbe dovuto aspettarsi da quella esperienza? Non lo sapeva, non lo si sa mai con questa droga
Prese dalla bustina qualche ciocca di quella che avrebbe benissimo potuto essere una tisana e riempì la pipa che molti anni prima utilizzava per il fumo. Accanto al divano aveva portato un secchio, nel caso vomitasse, ed una bottiglia d’acqua era lì a disposizione.
Si portò la pipa alla bocca e accese la brace con un accendino di scarsa qualità, quando la brace fu ben accesa aspirò una grande boccata.
Poi un’altra.
Fu quando tentò di portarsi la pipa per la terza volta alla bocca che il mondo che aveva davanti svanì, gli sembrò per sempre.
Nel vuoto più nero cominciarono ad apparire delle figure geometriche i cui colori appartenevano ad uno spettro sconosciuto agli esseri umani. I Viola, i verdi, i blu, per quanto potessero essere associati ai colori terrestri erano lontani anni luce da questi, sovraccarichi. Queste figure, questi mandala, velocissimi si aprivano a fiore davanti a lui e diventavano enormi, risucchiandolo. David non aveva un punto di osservazione, David era un punto d’osservazione! Un condensato di coscienza pura. I fiori mandalici nei quali veniva inglobato rivelarono la loro natura frattale, e lui si sentì catapultato a velocità impensabile giù, all’interno di questi. Tutto era troppo veloce per riuscire a processare le informazioni che giungevano alla sua coscienza, sovraccaricandola. Una potentissima vibrazione, presente dal primo istante dell’esperienza, aumentava la sua frequenza, sembrò distorcere lo spazio-tempo, stirare gli atomi che lo componevano, o qualunque cosa di cui fosse composto in quel momento, sempre più forte, sempre più intensamente, tanto da diventare quasi insostenibile per lui. Quando sentì che stava raggiungendo il limite massimo della distorsione, l’apice del suo lancio, il culmine estremo, la vibrazione divenne un boato di proporzioni bibliche e d’un tratto fu tutto bianco. Di un bianco oltre l’umana comprensione, pura luce, ma non vi erano retine che potessero venirne accecate. Il suo corpo non era con lui in quel luogo. Fu silenzio, non vi era tempo, non vi era spazio, vi era la Totalità, per qualche istante almeno. Forse quello fu l’unico momento in vita sua in cui sentì che tutto era dove doveva essere, lui in primis. Vide la perfezione che sta dietro a qualsiasi aspetto dell’esistenza, per la prima volta sospese ogni giudizio.
Quell’ambiguo stato di cui era partecipe, di assenza di dolore e di gioia e di paradossi che trovarono finalmente soluzione, si allontanò da lui. Fu di nuovo in balia di forze che non riusciva a comprendere, che prendevano la sua coscienza e la sbattevano furiose come fosse un rametto in balìa delle rapide. Quei brevi istanti di quiete che gli erano parsi eternità furono sostituiti in maniera repentina quasi fossero mai esistiti. Dopo qualche interminabile momento, quel tumulto lo scaraventò in una nuova realtà, per un attimo credette di essere tornato, ma non poteva essere così, ancora non aveva il suo corpo. L’oscurità nella quale era immerso si diradò poco per volta, tanto da riuscire a scorgere i contorni sbiaditi di ciò che aveva davanti. Vide una sorta di tavolo operatorio sul quale era sdraiata una figura di donna. Non sentiva alcun suono, come avessero aspirato tutta l’aria di quella stanza, ma avvertiva fortemente l’emozione di cui era preda quella donna: paura. Le sue gambe erano divaricate come dovesse partorire, tenute ben ferme e distanti l’una dall’altra da un apparecchio di metallo. Via via i dettagli diventavano sempre più chiari, più evidenti, Era completamente nuda. David riuscì a vedere i polsi di quella donna che erano immobilizzati da quello che poteva assomigliare ad un fascio di sottilissimi fili di ottone, non più larghi di un capello, ma erano sicuramente meno fragili di quello che si potrebbe pensare. La donna si dimenava, ma quei fasci di fili la tenevano saldamente bloccata. David provò a muoversi, ad avvicinarsi alla donna per cercare di soccorrerla, ma non vi fu verso. Anche lui, neanche fosse egli stesso legato da fasci di fili, non si poteva muovere di un millimetro. Così risultò vano il tentativo di spostarsi all’interno della sala, che non riusciva a mettere a fuoco. Solo la piccola area dove stava la donna si era rischiarata alla sua vista. Finalmente riuscì a mettere a fuoco il suo viso, era molto giovane, era solo una ragazza! Lei sembrò non accorgersi di lui, allora sono davvero invisibile, disse a se stesso. Avvertì una stretta laddove sarebbe dovuto essere collocato il suo cuore, paradossalmente ora tutto sembrava al proprio posto, ma non poteva né vedere né toccare nulla di sé. Era un’agonia per lui essere del tutto impotente. Provò ulteriormente ad indagare la natura di quel luogo, nonostante tutto fosse coperto alla sua vista da una strana nebbia. Non riusciva a capire se fosse la sua vista o se esistesse davvero, come può esserci della nebbia in una sala operatoria?
Vide la ragazza urlare e piangere guardando qualche metro davanti a sé, in quella direzione David riuscì a vedere un altro tavolo operatorio in quello che doveva essere acciaio chirurgico, disteso lì sopra vi era un altro corpo nudo, immobile. Non riusciva per l’ennesima volta mettere a fuoco, a vedere nulla più che qualche contorno confuso. Era sicuramente un uomo quello, sì, un uomo pelato, o dai capelli cortissimi.
In un brevissimo istante, venuto da chissà dove, si pose davanti alla coscienza di David una presenza di cui non poté identificare le fattezze. Vide solo due occhi neri dallo sguardo così intenso, che se lo avesse avuto, gli si sarebbe raggelato il sangue.
«Tu, che cosa ci fai qui?» Decisa arrivò questa frase alla sua coscienza, ma non l’aveva sentita. Era proprio rimbombata all’interno del suo essere, e continuava a riecheggiare, senza fine, come un urlo in un enorme canyon. La voce continuò: «Non sei autorizzato ad accedere a questo materiale. È nel tuo interesse tornare alla tua piccola vita e non interferire mai più nei nostri affari, se non vuoi pagare le amare conseguenze della tua inavvedutezza» Le frasi di quello strano personaggio continuavano ad arrivare a lui attraverso nessun sistema auditivo, era come avessero origine dal più profondo di se stesso.
«E tu chi sei, di che materiale stai parlando? Quelli sono esseri umani, non pezzi di plastica! Lascia andare quella donna! Che cosa le state facendo?»
«Torna alla tua piccola vita David!» E questo pensiero, perché di un pensiero doveva trattarsi e non di una frase pronunciata, lo investì con la potenza di un treno ad altra velocità in una folle corsa. Sentì il cervello, o una qualche sua controparte, non riuscire a sostenere l’impatto di quell’attacco che si rivelava essere mentale. Provò un acutissimo dolore all’altezza del terzo occhio, e si sentì scaraventato ad una velocità impressionante contro qualcosa di morbido e famigliare.
Mi ha chiamato per nome. Sì, quella strana presenza conosceva il suo nome. Ciò che chiunque, a rigor di logica, qualificherebbe come uno stato pseudo onirico, o tuttalpiù di tipo allucinatorio dovuto ad una sostanza psicoattiva, aveva lasciato però in lui la netta ed inquietante sensazione che si trattasse di qualcosa di reale.
Sentì di essere caduto da un’altezza inquantificabile su quello che sembrava il suo divano, ma non ebbe il coraggio di aprire gli occhi ed indagare, non prima di una trentina di secondi. Il suo cuore pompava a mille, come se prendesse a testate il suo petto dall’interno, ed il contraccolpo arrivava fin nelle orecchie stordendolo più di quanto non fosse già. Cercò di centrarsi, di ricomporsi e facendo ricorso a tutta la sua forza d’animo aprì di scatto gli occhi. Quello era il suo divano! Emise un profondo sospiro di sollievo, ma la gioia di essere tornato non tenne a bada né il mal di testa né la nausea che derivarono dall’esperienza, che esplose facendogli rimettere quel poco che aveva mangiato direttamente nel secchio che era stato portato per quella funzione. I conati erano fortissimi e lo scuotevano con violenza, e mentre era col viso riverso nel secchio, arrivò fulminea l’immagine di quella ragazza, del terrore che vide nei suoi occhi. Sentiva in qualche modo di comprendere quel terrore, e per quanto lei fosse, realisticamente, nulla più di un’immagine mentale, c’era qualcosa che criptato nei suoi strati subconsci lo legava a lei. Devo smettere con la droga cazzo, una volta per tutte.
Al lavoro si era dato per malato, non sarebbero certo entrati in deficit per questo, ci vuole ben altro per preoccupare gli azionisti. Dopo circa una settimana da quello strano viaggio, sette giorni, circa centosettanta ore, non era ancora riuscito a riprendersi dallo shock di quel viaggio. Essenzialmente erano due le questioni che torturavano la sua coscienza, sulle quali la sua mente continuava autolesionisticamente a ricadere e che non prospettavano alcuna semplice soluzione, perlomeno a breve termine. La prima riguardava i dubbi che lo avevano investito in quegli ultimi sette giorni sulla natura della realtà, su quanto lui come osservatore potesse considerare come “vero”, del mondo che lo circonda. Se un’allucinazione indotta da dmt poteva creare un duplicato di realtà apparentemente così tangibile, c’era sicuramente da mettere in dubbio la realtà stessa.
Che cosa fa del reale “reale”? Aveva ovviamente pensato allo stato onirico, nella maggioranza dei sogni siamo convinti a torto di essere svegli, nella stessa realtà, ma a differenza di quelli nel luogo in cui era stato, traghettato dalla dmt, era pienamente consapevole. Lì il suo pensiero seguiva come nello stato di veglia una logica coerente, allora dove era stato? Aveva forse vissuto un episodio di quello che gli americani definiscono remote view, di visione a distanza? Non poteva escludere alcuna pista. Doveva ammettere però che al momento non aveva dati a sufficienza per poter giungere ad una teoria coerente. Il tempo avrebbe detto la propria, su questo argomento.
Poi c’era l’altra questione, quella che sentiva stargli più a cuore… la ragazza. Il suo viso era venuto a tormentarlo ogni notte, in ogni momento chiudesse gli occhi, ed ogni volta portando con sé una pugnalata diritta al cuore. Per quanto avesse voluto trattenere il più precisamente possibile il ricordo dei suoi lineamenti, questo era andato via via dissolvendosi. Quello che lo tormentava era l’immagine di una donna senza volto, disturbante, ossessiva, che richiamava costantemente la sua attenzione. In certi sogni però compariva in tutta la sua bellezza, compresi i suoi grandi occhi neri, profondi, oceanici, e quelle labbra turgide che accennavano un sorriso, ma al mattino era svanita, e così il suo ricordo. Aveva incubi in cui lei lo chiamava terrorizzata, chiedeva aiuto, ma lui era inerme e costantemente prigioniero di una forza ben al di là di qualsiasi sua possibilità, proprio come nell’esperienza sotto dmt. La sua struttura interiore, come in balìa di una reazione a catena innescata da chissà cosa, cominciava a cedere sotto il suo stesso peso, a collassare irrimediabilmente su se stessa. Si sentiva morire, e forse qualcosa in lui stava morendo davvero, come si può amare un’illusione?
Per quanto fosse totalmente illogico, non voleva abbandonare l’idea di una reale, seppur remota possibilità, che lei esistesse, che fosse viva, che da qualche parte alla fine l’avrebbe ritrovata.
Non volle parlare apertamente con nessuno della sua ambigua esperienza e del tumulto emotivo che ne era susseguito. Era tutto così folle, non avrebbe certo biasimato chi, sentendolo, gli avrebbe consigliato di parlare con uno psichiatra, di andare in ospedale. Lui stesso dubitava fortemente della sua salute mentale, aveva amici che erano entrati in delle psicosi da cui non erano mai usciti. Doveva venirne a capo, in un modo o nell’altro, ma ciò che provava in quel momento era l’essere sul ciglio di un abisso, sotto di sé il vuoto, e per la prima volta avvertiva questo disorientante senso di vertigine: la vertigine della follia.
Le settimane scorrevano, ma la sua vita era sempre più sull’orlo di implodere, il punto di rottura, irrimediabilmente, si stava avvicinando. Assomigliava sempre più ad un labirinto di specchi, che davano indietro un’immagine tanto distorta da sembrare mostruosa. Dal giorno del viaggio con la dmt sentiva come se ci fosse sempre qualcuno nei dintorni ad osservarlo. Avvertiva chiaramente il pesante sguardo di qualcuno che era costantemente celato alla sua vista. Aveva evitato in quei periodi quei pochi amici che frequentava, non sarebbe stato in grado di dissimulare il suo stato d’animo, e non era nella posizione di poter dare spiegazioni. Da quell’evento si era innescato inoltre un curioso fenomeno, che il David di sempre avrebbe qualificato come “completamente irrazionale”, non era però il solito David a vivere quelle esperienze, lui stava cambiando. Il fenomeno consisteva in una sbalorditiva sequenza di coincidenze, da lasciare a bocca aperta anche il più scettico dei razionalisti. Poteva sognare di notte qualcuno che non vedeva da anni e l’indomani incontrarlo per caso, oppure mentre ascoltava la musica dal computer con la riproduzione casuale, su svariati gigabyte usciva proprio la canzone a cui stava pensando, o quella che sembrava parlare proprio del problema che in quel momento lo affliggeva. Aveva una sensibilità potenziata, per strada poteva sapere se girato l’angolo avrebbe incontrato un uomo, una donna, un vecchio. Poteva sapere l’esatta età di una persona senza chiedere, o la sua provenienza regionale senza sentirla prima parlare. Addirittura, quando nel pieno della notte si svegliava al buio, chiedeva a se stesso ad occhi chiusi che ore fossero, e sotto le palpebre compariva l’immagine di un orologio a lancette con l’esatta ora che subito dopo il suo telefono avrebbe confermato.
Si era convinto di avere nelle sue più immediate vicinanze una presenza, una guida, che vedeva poco più in là di lui sulla linea del tempo e che ne dirigeva, a seconda di ciò che vedeva, i passi. In principio era stato emozionante provare l’ebrezza di questi piccoli “superpoteri”, ma quell’inusuale esperienza diventava via via sempre più preoccupante. In qualche modo sentì di star canalizzando delle energie basse, negative, e la reazione delle persone attorno a lui sembrò dar ragione a questa teoria. La gente nei suoi paraggi si innervosiva, si allontanava. I cani per strada gli ringhiavano, cosa per lui assai rara, aveva sempre avuto un feeling particolare con gli animali, e così anche con i gatti aveva problemi, inarcavano la schiena in sua presenza e terrorizzati scappavano via.
Quando David si accorse della sinistra piega che stavano prendendo gli eventi, parlò mentalmente a questa presenza, in modo diretto: così mi fai paura.
Una sera, in una condizione psicologica che rasentava la paranoia, era raggomitolato sul suo divano con le braccia attorno alle ginocchia, dondolante. Guardava la televisione, e per un qualche breve momento si convinse che qualcosa gli stesse parlando attraverso di questa. Non percepiva delle parole pronunciate, se non quelle che avrebbe sentito chiunque della pubblicità o di un programma, lui percepiva qualcuno “dietro” la televisione, che gli stava dando, a suo modo di vedere, un messaggio ben chiaro. Le parole non possono spiegare ciò che lui vide, o meglio, comprese. Il messaggio viaggiava su di una frequenza differente, faceva appello ad una sensibilità diversa che le persone comuni non hanno, ma a lui appariva chiaro come il sole, lapidario quasi: “Vuoi ricchezza, donne, potere? Devi fare quello che ti diciamo NOI!”
Ormai si era quasi convinto che gli eventi delle ultime settimane erano causati da una forma acuta di psicosi, e come potrebbe essere altrimenti? Questa va a corrompere gli strumenti stessi con i quali valutiamo la realtà, distorce in maniera imprevedibile qualsiasi input provenga dall’esterno. Doveva necessariamente essere così, quale altra spiegazione poteva esserci, che degli spiriti lo stavano manipolando? Oppure che si era in una fase preliminare di un’invasione marziana e lui era uno dei primi a cadere nella trappola? David non credeva a queste cazzate, non più di quanto potesse accettare l’idea che Babbo Natale esista veramente. Lui era una persona logica, razionale, non avrebbe permesso ad una psicosi del cazzo di mandargli in pappa il cervello, lui in qualche modo l’avrebbe controllata. Il suo piano era questo, aspettare ancora qualche tempo, un paio di settimane al massimo, e vedere se la situazione tornava sotto controllo, altrimenti sarebbe andato dalla sua psichiatra. Alla Morinelli avrebbe chiesto degli antipsicotici, e quell’incubo sarebbe finito, tutto sarebbe andato liscio come l’olio e lui sarebbe tornato alla sua vita normale. Normale ”tra virgolette”. Una sera è tuttavia successo qualcosa che neanche tutta la sua razionalità del cazzo, come la chiamava lui, poteva spiegare. Neanche con la psicosi.
Stava tornando in treno da una cittadina limitrofa, scese a Torino Porta Nuova, la stazione principale. Già in treno avvertiva della tensione, addirittura dell’ostilità da parte degli altri passeggeri che lo guardavano in cagnesco. Una volta sceso, delle persone gli sbatterono contro da dietro, ci mancava poco che rovinasse a terra. Si incamminò all’interno dell’enorme edificio gremito di persone che come formiche correvano ognuno appresso alle proprie faccende. Il fare della gente era scattoso, persino isterico. L’aggressivo abbaio di un cane enorme, un molosso, lo fece trasalire. La padrona tirò a sé il guinzaglio, ma guardò con fare di stizza nella direzione di David che cominciava a chiedersi come mai tutti ce l’avessero con lui. Il suo cuore cominciò a battere più forte e delle gocce di sudore gli incorniciarono il viso. Prima che riuscisse ad uscire da quell’inferno almeno altre quattro persone gli sbatterono addosso, ognuna di queste prendendolo poi a male parole. Preso da un ansia che si faceva sempre più considerevole e che gli toglieva il respiro, uscì il prima possibile dalla stazione, imboccando l’uscita di Porta Nuova est, finendo però nella direzione opposta a quella in cui sarebbe dovuto andare. Giunto all’aria aperta cercò di riprendere fiato, di ritrovare l’equilibrio perduto, era assai turbato. Alla sua destra accovacciato a terra stava un vecchio clochard, una faccia conosciuta della stazione. Il volto scheletrico coperto da una lunga barba bianca ed i vestiti sudici restavano a lungo impressi nella memoria dei passanti. Si voltò verso David e con uno sguardo tanto vitreo da sembrare aver perso qualsiasi traccia di umanità, gli urlò: «Non credere che ti lasceranno in pace, o che ci sia un luogo dove poterti nascondere, loro ti trovano sempre!» Il ragazzo divenne bianco come uno straccio, la sua gola si asciugò istantaneamente e per qualche istante non riuscì a replicare nulla, se non qualche goffo balbettìo, ma dopo qualche momento e con non poca fatica riuscì a rispondere: «Di che cosa stai parlando? Loro chi? Lasciami stare vecchio, ho già i miei problemi!»
«I tuoi problemi saranno sempre più grossi, ti seppelliranno! Succede sempre così a chi non gli dà ascolto, a chi non fa ciò che dicono loro. Ascolta un povero vecchio, giovanotto. Guarda che fine ho fatto io!» E rivolto verso di lui, comincio a ridere di una risata isterica, inquietante, lasciando in bella mostra quei pochi denti marci che gli erano rimasti in bocca. David restò come di sasso, inorridito, a fissarlo. Il vecchio smise di ridere un poco alla volta ed il suo sguardo spento si perse nel nulla, in un punto imprecisato davanti a sé. Una macchia scura cominciò ad allargarsi sui suoi pantaloni, imbrattandolo di urina. Il ragazzo, scioccato, si mise a correre, scappò via nella prima direzione si trovò dinanzi, senza neanche sapere dove andare, senza neanche riuscire a pensare. Corse, corse più che poteva, così forte da sembrar sputare i polmoni fuori dal petto. Volava sopra l’asfalto bagnato, e in quel momento la sua testa cercava a vuoto una qualche spiegazione ragionevole. La psicosi? Sperava caldamente che fosse quella la ragione di tutto. Dottoressa ho bisogno d’aiuto, cazzo dottoressa, solo tu mi puoi aiutare. Fu mentre rivolgeva queste silenziose preghiere alla Morinelli che le gambe non ressero più e dovette per forza di cose fermarsi. Il fiato rotto e le tremende fitte che, lancinanti, gli trafiggevano la milza lo avevano piegato letteralmente in due. Con le mani poggiate sulle cosce e gli occhi sbarrati dallo sforzo cercò di riprendere fiato, perdendosi nelle piccole incanalature dell’asfalto piene dell’acqua della recente pioggia. Delle grosse gocce porpora caddero andando a diluirsi nell’acqua piovana sulla strada. Stava sanguinando! Si portò la mano alla bocca e la ritrasse completamente sporca di sangue. Fortunatamente aveva dei fazzoletti, se ne portò uno al viso, il setto nasale sanguinava copiosamente, e come si fa in questi casi sollevò il capo per cercar di frenare l’emorragia. L’attimo seguente fu senza dubbio il momento più sconvolgente dell’intera sua esistenza. Fu certamente uno di quei momenti cardine, di quelli che una volta vissuti non si torna indietro, e se si torna, si è irrimediabilmente cambiati, per sempre. La visione che aveva davanti era letteralmente da capogiro, tanto che dovette appoggiarsi allo specchietto di un’auto parcheggiata. Sopra di lui, immobile e silenzioso, stazionava la cosa più strana che aveva mai visto: un enorme oggetto triangolare, nero come la morte e dai lati lunghi come minino trenta metri. Nella sua testa comparse dal nulla un suono così acuto da sembrare friggergli il cervello, era insopportabile. Non volle restare un secondo di più, doveva andarsene. Quella che inizialmente era solo una leggera pioggerellina si era trasformata all’istante in un acquazzone torrenziale, quindi quando imboccò le scale della metropolitana che erano lì a qualche decina di metri era già fradicio. Era stato il primo posto sicuro che avesse individuato nelle immediate vicinanze. Lì non lo avrebbero potuto seguire. Prese al volo un treno e pregò di poter arrivare fino a casa ed infilarsi nel suo letto. I passeggeri della metro, come un branco di erbivori di grossa taglia, avevano percepito la puzza della paura che David si portava addosso, avvertivano in loro stessi il nervosismo, l’agitazione, e si erano allontanati da lui come a salvaguardarsi dal contagio di un pericolo del quale non erano in grado di identificare la natura. Il giovane si appoggiò allo schienale del sedile e chiuse gli occhi per isolarsi da tutta quella umanità concitata. Non vi era un singolo punto nel suo corpo che non gridasse dolore.
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«Dottoressa, lei mi deve aiutare, le cose hanno preso una brutta piega, sto perdendo il controllo…» L’immagine del paziente che la dottoressa Amanda Morinelli aveva di fronte quel lunedì mattina era assai differente da quella del David Pilastro che si era abituata a conoscere. Ancora prima che lui entrasse nei particolari, la psichiatra aveva capito che David doveva aver avuto una pesante ricaduta, sì, una di quelle che non lasciano molto spazio a dubbi e congetture. C’era però qualcosa in quei due grandi occhi, resi ancor più enormi dal viso scheletrico, che la turbava nel profondo. Era suo compito aiutare quel ragazzo, e come erano riusciti anni prima a riemergere da quel profondo baratro in cui lui versava, assieme, così avrebbero fatto ancora. David era un paziente con grandi doti e grandi possibilità di riuscire a fare fronte al pesante fardello di quella malattia beffarda che è la tossicodipendenza.
«David, cerca di calmarti, fa un lungo respiro e, quando ti senti pronto, sputa il rospo.»
«Dottoressa, questo è un cazzo di rospo bello grosso!»
«Ok, sarà pure bello grosso, ma lo affronteremo, assieme» Quei pochi momenti furono di un silenzio così denso dell’emotività di quel ragazzo, che la dottoressa aveva l’impressione di esserne investita, come un destro ben piazzato alla bocca dello stomaco. Quando gli occhi di David riuscirono finalmente a rilasciare le lacrime di cui erano colmi fu come l’apertura di una diga. Riuscì, dopo aver ricevuto dei fazzoletti dalla Morinelli, a ricomporsi quel tanto da cominciare a spiegare: «Gli ultimi mesi sono stati tra i più duri della mia vita, tutto è cominciato con il ritorno di quel sogno ricorrente di quando ero bambino. Sono iniziate delle strane esperienze notturne, delle allucinazioni vere e proprie! La televisione mi parla cazzo! Ed è anche tornato il terrore di prendere sonno, mi sento in trappola. Vedo la gente per strada che mi guarda storto, con astio, so che non può essere così, perché mai tutto il mondo dovrebbe avercela con me? Mi sono messo di nuovo in malattia al lavoro, non ce la faccio più. Ho passato le mie notti in bianco a pensare, a pensare. C’è solo una risposta plausibile a tutto questo, ma non sono io quello che fa le diagnosi qui…»
«Hai ripreso con le droghe David?»
«Ma dottoressa, io le sto dicendo che mi sono bevuto il cervello, che mi vedo un cazzo di enorme UFO in pieno centro e lei mi chiede se ho ricominciato a drogarmi?»
«Sì, te lo chiedo. Quindi…?»
«Beh, no. Non con il crack… Con la coca ho chiuso tanti anni fa»
«Non ti ho chiesto se hai ricominciato con il crack, io ho parlato di “droghe”»
«Non ho ricominciato, se è quello che vuole sapere. La realtà è che completamente non ho mai smesso, ho solo trovato un modo un po’ più equilibrato di farlo. Ci stavo anche riuscendo, ma negli ultimi mesi la situazione mi sta sfuggendo di mano…» Il viso di Amanda, non la dottoressa Morinelli, ma quella stessa Amanda che aveva pianto per anni la morte di Mattia, suo fratello più piccolo, a causa di un’overdose, assunse una triste espressione. Distante. Ferita. Forse non avrebbe mai dovuto accettare quel ragazzo come paziente, come sperava di poter avere il giusto distacco emotivo, come poteva illudersi di essere anche solo lontanamente professionale e non proiettare su quel giovane bisognoso d’aiuto l’immagine di quel fratello, per giunta coetaneo di David, che non era riuscita a salvare? Era stata un’ingenua, questo si stava dicendo in quei momenti. Non poteva più fingere, non ci riusciva più, lei aveva realmente a cuore David, molto più di quanto la sua professione avrebbe mai consentito. Fanculo il distacco professionale, disse a se stessa mentre si conficcava le unghie curate nelle carni delle cosce per sfogare la frustrazione, o forse solo per punirsi un po’. Credeva di meritarselo. Ora era lei quella le cui lacrime non ne volevano sapere di restarsene entro i confini delle palpebre, ora era lei quella che avrebbe volentieri rovesciato la scrivania che li separava, forse per tirargli uno schiaffo, forse per abbracciarlo. Fece violenza a se stessa contenendosi, fece violenza a se stessa lasciandosi andare.
«David, ma perché non me l’hai mai detto? Ci siamo visti ogni fottuta settimana degli ultimi sette anni! Avrei potuto aiutarti, avrei potuto esserci! In sette anni mi hai solo presa in giro». Era rimasto sbalordito dall’intensità dell’emozione dipinta sul volto di lei. Non se l’aspettava di certo. Forse da una sorella, da una fidanzata o da una madre, ma non da una dottoressa. Non aveva mai sospettato un tale attaccamento da parte sua. Non sapeva che dire, si sentiva completamente a disagio, fuori luogo. Con un patetico tono della voce cercò di giustificarsi:
«Non me la sono sentita di dirglielo, mi dispiace. Tutto sembrava abbastanza sotto controllo, se lo avessi perso glie ne avrei parlato!»
«Controllo? Tu credi davvero che sia possibile per una persona con una storia di dipendenza come la tua avere un benché minimo controllo con le sostanze di abuso? Mi dispiace dirtelo caro, ma sei fuori strada»
«Ma se sono sette anni che fila tutto liscio!»
«E tu la chiami “filare liscio” questa psicosi? Spero vivamente che sia “solo” una psicosi, che si limiti a qualche settimana e che con i farmaci possa rientrare, altrimenti abbiamo un problema bello grosso David: si chiama schizofrenia». Lui era rimasto a bocca aperta, fulminato sul posto come da una potente scossa elettrica. Il suo pallore era diventato ancora più pronunciato: «Quindi è questa la sua diagnosi provvisoria…» disse spaesato. La Morinelli si accorse di aver tramortito la sensibilità del suo paziente con la violenza di un tir in corsa. Provò una profonda vergogna per la sua reazione dir poco emotiva, isterica, avrebbe detto lei, tutt’altro che professionale. Sentì la sgradevole sensazione di un fuoco che divampa in viso, stava arrossendo, ma si fece forza, deglutì e si impose di calmarsi. Così fu, all’istante. Cercò in qualche modo di far rientrare la situazione entro i parametri della ragionevolezza:
«Sì, mi dispiace David. Mi sono lasciata prendere. Sai, sono molti anni che lavoriamo assieme, e quando cadi tu in un certo senso cado anch’io. Ora non fasciamoci la testa prima di essere sicuri che sia realmente rotta. Ti prescrivo un farmaco, è una molecola interessante, olanzapina, può essere molto utile in casi come il tuo. Oltre ad essere un antipsicotico, è notoriamente uno stabilizzatore dell’umore, proviamo un paio di mesi con quella, poi la scaliamo gradualmente. Se i sintomi della psicosi a quel punto torneranno, potremmo azzardare una diagnosi. Per favore, cerca di non assumere droghe se non vuoi perderti completamente»
«Sì, ci proverò»
«Non ci devi provare, ci devi riuscire! Devi metterti di impegno»
«Mi impegnerò dottoressa, davvero. Ma…se non dovesse funzionare?»
«David, se così fosse ne usciremo un’altra volta. Insieme. E poi c’è un altra cosa che non ti ho detto. Dovrebbe farti piacere…»
«E cioè?»
«L’olanzapina fa ingrassare, non ti farà male avere qualche chilo in più.» Concluse quella frase con un bellissimo sorriso pacificatore.
Finalmente la tensione che solo qualche istante prima impregnava quella stanza era svanita. La dottoressa compilò e gli pose la ricetta del farmaco, e dopo aver concordato l’appuntamento per la settimana successiva lo accompagnò alla porta, oltrepassata la quale David incrociò il suo sguardo con la paziente dell’ora successiva.
Bastano un paio di secondi per cambiarti la vita. Era il sogno che faceva capolino nella veglia, oppure il contrario?
Dove aveva visto quello sguardo? La conosceva, ne era sicuro, ma dove? Bastò una rapida occhiata alla ragazza dai capelli castani che stava nella sala d’aspetto della Morinelli per tramortirlo, così, senza preavviso. Per un millesimo di secondo, un impercettibile momento la sua mano aveva sfiorato, entrando in ufficio, quella di David. Come se non fosse bastato quello sguardo a scandagliare la sua anima, quel brevissimo approssimarsi tra il dorso della mano di lei e le dita di lui avevano scatenato una sorta di contatto elettrochimico, l’anima di uno aveva trovato il passaggio per superare le barriere fisiche dell’altra, ed anche se solo per la durata di un battito di ciglio, erano state una cosa sola. Incrociate le loro strade e passati oltre, rientrando doverosamente entro i confini dei propri corpi e procedendo ognuno nella direzione prestabilita, avevano sottratto, furtivamente, l’uno un pezzetto dell’altra. E lo sapevano. Erano complici ormai.
Mentre scendeva le scale, David processava a velocità sostenuta tutta quella mole emozionale che, nella sua mente, veniva tradotta in piani d’azione, progetti, differenti strategie per poter incrociare la strada di lei anche solo un’altra volta. Non poteva perdere quest’occasione, quella donna aveva qualcosa che non aveva visto mai in nessuna. Aveva la netta sensazione di conoscerla da moltissimo tempo, il suo viso risvegliava in lui quella stessa familiarità che si prova nel tornare in qualche luogo che appartiene alla propria infanzia, ma come poteva spiegarsi tutto ciò? Forse avevano già vissuto uno accanto all’altra. In un altra vita, forse. Non lo sapeva.
Mentre usciva da quel vecchio edificio che conteneva lo studio della sua psichiatra, David chiedeva a sé stesso che cosa potesse fare per conoscerla. Non poteva certo chiedere alla Morinelli di presentargliela, questo era fuori discussione, la dottoressa non avrebbe mai acconsentito, e poi non la voleva mettere nella situazione di mettere in crisi il proprio codice deontologico, non più di quanto sicuramente già fosse, a giudicare dal colloquio appena conclusosi. Bene, aveva deciso: la aspetterò al bar di fronte allo studio, nel dehor. Appena la vedrò uscire dal portone, mi farò avanti.
Per quanto si contenesse, provava una gioia incontenibile, e non ci aveva nemmeno parlato! Non voleva fare la figura del deficiente con i passanti, ma gli era quasi impossibile non andarsene in giro con quel sorrisetto ebete. Per quanto non avesse alcuna sicurezza di poter avere qualche possibilità con lei, c’era qualcosa in lui che gli diceva di doversi tuffare.
Aspettò quello che doveva aspettare, ingannando il tempo su Facebook con lo smartphone, mentre mangiucchiava qualche patatina e si beveva una bibita fresca. Erano passati all’incirca una cinquantina di minuti da quando si era seduto ad un tavolino esterno del bar, quando finalmente vide il portoncino aprirsi. Si incamminò dietro di lei, e si accorse di non aver pensato in quell’ora di tempo a nessun pretesto, nessuna scusa per poterla invitare a bere qualcosa. Era a qualche metro da lei, ma poteva già sentire il suo profumo, di quel tipo dolciastro che molti odiano, ma lui ne era inebriato. Era sicuro di conoscere bene quel particolare profumo, forse lo stesso di una qualche sua fiamma. Il movimento sinuoso del corpo di lei, associato a quella gradevole fragranza, aveva su di lui un effetto ipnotico. Proprio quando stava per trovare delle scuse con se stesso e stava per andarsene abbandonando con disonore la missione, lei voltò il capo nella sua direzione e con espressione un po’ sorpresa disse: «Hey, ma tu sei quello che era dalla Morinelli…» Lui, un po’ alla sprovvista, riuscì a balbettare solamente un timido «Sì, sono io»
«Non ti avevo mai visto lì, probabilmente dev’essere stato un errore averci messo l’appuntamento uno dopo l’altro»
«Perché dovrebbe essere stato un errore?»
«Beh, penso che lei voglia evitare di mettere a contatto dei suoi pazienti che per età o sesso potrebbero fare amicizia o…altro.» David si sentì arrossire come un quindicenne, ma probabilmente lei non se ne accorse, o perlomeno finse di non accorgersene, e tenne lo sguardo di fronte a sé, posandolo saltuariamente sulle vetrine dei negozi. Poi incalzò: «Sai, i dottori stanno molto attenti a queste cose, non vogliono responsabilità»
«…Ma sono completamente fuori strada, se due persone si devono incontrare, niente potrà impedirlo. Se è destino, è destino»
«Tu credi nel destino?»
«Credo che niente avvenga per caso, tutto nella vita ha un significato»
«Wow, che ragazzo profondo!» e disse quelle poche parole evidenziandole con il tono della voce che era già di suo particolarmente musicale, e sorrise, abbassando poi lo sguardo per via di un malcelato imbarazzo. Forse non era una ragazza così sicura di sé come avrebbe voluto far credere. Estrasse dalla tasca posteriore dei jeans scoloriti un pacchetto di sigarette malconcio, Yesmoke, se ne mise una tra le labbra e fece per cercare un accendino, ma David l’anticipò, dandole da accendere. Tirò qualche profonda boccata, sentì la nicotina calmarle istantaneamente i nervi, poi disse: «Non ci siamo ancora presentati, piacere, Iris»
«David, piacere mio.» Proprio quando la conversazione stava andando raffreddandosi, i convenevoli erano andati e si era arrivati a quel punto in cui, a meno che non si metta altra carne al fuoco, ognuno se ne va per la propria strada, David, che aveva in realtà fatto la figura fino a quel momento di quello un po’ imbranato, sentì che si doveva buttare, o avrebbe perso un’occasione d’oro, o la va o la spacca…
«Ascolta Iris, non vorrei sembrarti il cascamorto della situazione, normalmente uso altri metodi d’approccio e no, questa non è una strategia già ben collaudata come invece potresti pensare, ma ti devo dire una cosa…» Lei lo guardò perplessa, con aria interrogativa. Percepiva la sua tensione, quindi il ragazzo continuò: «Prima, quando ci siamo incrociati fuori dall’ufficio della Morinelli, non te lo so spiegare ma… insomma, è successo qualcosa cazzo. Non lo so cosa, non sono cose che mi capitano tutti i giorni queste, ma ho sentito che dovevo conoscerti. Non lo so il perché, in realtà è come se già ti conoscessi. Insomma, è questo. Sarebbe stato difficile ritrovarti, quindi ti ho aspettata. Non pensare che sia uno stalker, saresti fuori strada, ma sentivo che lo dovevo fare». Lei rimase sbigottita, in silenzio per qualche istante. Proprio quando David stava per cominciare nuovamente a giustificarsi, lei gli si avvicinò ed emise con la bocca quel suono, shhhhhhhh, dolcemente, portandosi l’indice alle labbra per zittire le sue ulteriori e vane preoccupazioni. «David, rilassati. Non ho bisogno di spiegazioni, non ti preoccupare. Gli esseri umani sono come degli strumenti musicali, sai, come una chitarra… Basta che vibri una corda e, magicamente, a volte suona anche l’altra».
A lui non sembrava vero, non tanto il fatto di riuscire a strapparle l’occasione di quella porta lasciata semi aperta, con le donne aveva sempre avuto un discreto successo, ma trovare qualcuno che avesse risvegliato qualcosa di così potente in lui e sul quale sembrava aver avuto altrettanto effetto, era una cosa davvero rara nella sua esperienza. Ci fu qualche momento di silenzio, i loro occhi si rispecchiavano gli uni negli altri e sorridevano, dal profondo dell’anima. David provò allora un’ambigua sensazione di cui lì per lì non trovava ragione. Il suo cuore era un’esplosione di gioia, e quello poteva anche accettarlo, ma ciò che lo smarriva era quella confusa sensazione che si prova nel ritrovare qualcuno perduto da tempo, era la prima volta che si vedevano eppure quello che sentiva in sé aveva i lineamenti della nostalgia, nostalgia di cosa o di chi non lo sapeva ancora. In quei mesi, comunque, tutta la sua vita era incerta, un puzzle dagli infiniti pezzi che non sembravano trovar collocazione. Confusa, sempre a cavallo tra realtà ed allucinazione, tra fantasia e materialità, tra brevi istanti di lucidità in un mare di settimane deliranti. Ciò che però sapeva era che non si doveva fidare in primis di se stesso. I feedback che il suo cervello riportava erano frutto di una stentata ed alquanto dubbia analisi della realtà: totalmente inaffidabili.
Passeggiarono per le vie del centro, tanto assorti nelle loro discussioni da dimenticare il mondo intero. Erano come in una bolla, in una piccola sezione di universo, ovattata e sicura, dove avevano l’impressione che, se solo avessero osato, avrebbero potuto essere realmente se stessi. Per una volta nella vita. Parlarono di loro, delle loro piccole vite, il lavoro di lui nel negozio di libri di una grande catena editoriale, in centro; della sua passione per la scrittura ed il suo sogno di poter entrare un giorno in quello stesso negozio, da potenziale cliente qualunque, e vedere il suo libro sugli scaffali. Anche lei amava scrivere, anche se il suo di sogno era diventare giornalista di qualche mensile patinato, il riportare sulla carta per ricchi e indifferenti occidentali la sofferenza e la povertà di paesi del mondo dove mangiare due volte al giorno è considerato un lusso. Sognava di poter fare qualcosa di grande, foss’anche solo un chicco di riso in un oceano di avidità. Al momento doveva pensare a finire la tesi, ma i tempi si stavano dilatando considerevolmente. «È difficile finire una tesi quando si lavora otto ore al giorno in un bar», gli aveva detto. Accennarono anche il motivo per cui avessero entrambi bisogno della Morinelli, lei disse di soffrire di un generico disturbo del sonno e di essere tormentata dagli attacchi di panico; lui invece disse di aver avuto dei pesanti problemi con la cocaina, quella però era acqua passata, si era trovato bene con quella dottoressa e aveva deciso di continuare a vederla.
Ormai si stava facendo sera, e avevano percorso già qualche chilometro su e giù per i portici del centro, era venuta fame a tutti e due.
«Ti andrebbe se ci troviamo un posticino carino per mangiare qualcosa?» le chiese David ammiccando in maniera autoironica, come nel suo stile.
«Ci siamo appena conosciuti e già vuoi portarmi fuori a cena?»
«Ti ho chiesto di mangiare qualcosa con me in un posto carino, non ti ho mica proposto di trasferirmi da te!» A quella battuta risero tutti e due animatamente. Era bello ridere, non lo facevano più tanto spesso. Quando si ricomposero Iris disse che avrebbe preferito mangiare da lei, gli avrebbe cucinato un piatto che difficilmente si sarebbe dimenticato. «Sai -aveva spiegato- ho sempre amato mangiare al ristorante, ma da quando soffro di attacchi di panico sono sempre in ansia che mi possano venire ovunque, e se mi trovo in un luogo in cui mi sento a mio agio è più difficile che si scatenino. Tu non farti strane idee!»
«Non mi faccio nessuna strana idea io! E poi ti capisco benissimo, ho l’ansia sociale da dieci anni. Anche se per motivi diversi ho il tuo stesso problema, ma ho sempre con me qualche pastiglia di Xanax, in caso dovesse servire…»
-9-
Fu certamente il profumo di olii essenziali la prima cosa che di quel grazioso appartamento lo colpì. Iris aveva gusto, questo era fuor di dubbio. Limone, avrebbe detto, seppe in seguito essere bergamotto. La casa era arredata con cura, allo stile orientale, con due bellissimi bonsai illuminati da una lampada di sale dell’Himalaya. Nel piccolo soggiorno, inoltre, faceva bella mostra di sé una statuetta di Buddha nella posizione del loto, ma mancava la televisione, al suo posto troneggiava un magnifico giradischi vintage. Una tipa interessante, si disse.
Iris aveva cucinato un semplicissimo risotto in bianco sfumato col vino, ma nella sua semplicità era ottimo. Mangiava con trasporto, lui adorava quel piatto, un altro punto a favore, pensò. Lei sembrava studiarlo, e David se ne accorse, ma fece finta di niente.
«Sai, prima hai detto che hai avuto problemi con la coca, mi chiedevo come hai fatto ad uscirne…»
«Beh, è una storia complicata.» Quella era la risposta ben collaudata che dava a tutti quanti gli chiedessero del suo percorso di risalita. Parlare di quell’argomento lo metteva a disagio, metteva la sua anima davanti ad una dura realtà che odiava ammettere. Lui non ne era uscito proprio per niente, aveva solamente spostato le sue compulsioni su altro. Quella situazione però era diversa, in sé avvertiva una grande calma, si sentiva, per una volta nella vita, al sicuro. Quelle settimane erano state un incubo, dove il suo cervello giocava a gatto col topo con la sua mente, se questo può avere un senso. Lì però, davanti a quella ragazza, in quella casa accogliente e calda, tutto nella sua testa aveva assunto una precisa posizione, senza ambiguità, senza giochetti. Per la prima volta, dopo tantissimo tempo, si sentiva lucido.
«Io sono complicata -rispose Iris- di conseguenza amo le storie complicate! Davvero, se non sono troppo invasiva, mi piacerebbe che me la raccontassi»
«Ok, te la racconterò. Era un periodo che stavo collassando sotto il peso di me stesso, sai, la cocaina…in realtà io fumavo il crack, è con quello che mi stavo distruggendo»
«Lo avevo immaginato sai, Torino è infognata di quella merda. Molti miei conoscenti si sono persi il cervello dentro a quello schifo.»
«Sì, è così. Poi il mio grande problema è che vendevo, quindi a tutte le ore del giorno e della notte la avevo sempre. Non vedevo alternative, io perlomeno non le avevo mai notate. Comunque, avevo un cliente, un tipo strano, atipico. Un sessantenne, professore all’università»
«Ma veramente? E chi era? Sicuramente non un prof di scienze della comunicazione, non ce lo vedo nessuno dei miei docenti in bagno a pippare».
«No, lui stava a filosofia. So che terrai per te quello che ti dirò. È una confidenza. Si chiamava Edoardo Solani. Comunque, ci vedevamo minimo due volte a settimana, ma anche di più, e quello si era accorto di quanto stavo peggiorando, sempre più magro, sempre più malato, quindi piano piano si è preso confidenza, sai, tanto da ottenere la mia fiducia e potersi avvicinare. E tutto questo solo per darmi una mano»
«Wow, una persona inusuale. Di me però ti puoi fidare, so essere una tomba. Però, non vorrei essere maliziosa, ma mi chiedo come mai»
«Me lo sono chiesto anche io, poi ho capito. Credo avesse dei problemi con la sua coscienza, anzi, ne sono certo. Aveva una figlia, molti anni prima. Una domenica la portò al parco, aveva quattro anni, e quando fecero per andare e lui stava per sistemare il seggiolone sul sedile della macchina, lei gli scappò e…venne investita. Da un SUV. Morì sul colpo quella povera creatura. Oggi avrebbe la mia età.»
«Mio Dio, che storia straziante»
«Lo è, Iris. Si chiamava Cassandra. Ecco, lui non me l’ha mai detto esplicitamente, ma credo sia questo il motivo per cui ha investito tante energie per salvare me. Non che non fosse di suo una brava persona, lo era eccome, ma aveva un grosso problema pure lui con la cocaina, e salvare qualcun altro quando tu stesso devi essere salvato è da folli. Ma lui ci è riuscito, ed era riuscito a trarre in salvo pure se stesso.»
«Ma come può una persona salvarne un’altra, in un problema come questo?»
«Beh, effettivamente nessuno salva nessuno. Noi salviamo noi stessi, ma qualcuno che tende la giusta mano al momento giusto è ciò che fa la differenza. Lui ha saputo aiutarmi a vedere ciò di cui io non mi riuscivo ad accorgere. Credo che ognuno di noi venga al mondo per uno scopo, ma quando non riesce a capire qual’è, e corre su binari diversi, finisce per morire dentro. Un po’ alla volta. La morte clinica può avvenire anche molti anni dopo quella dell’anima. I tuoi polmoni immettono aria, il cuore batte, ma in realtà sei morto.»
«E cos’è che non riuscivi a capire, cosa ti ha mostrato di te stesso?»
«Semplicemente chi ero davvero. Trovò dei miei quaderni con dei miei pensieri, poesie, niente di grandioso, ma lui ci lesse me lì dentro, lesse la mia anima che custodivo gelosamente e di cui mi vergognavo, dietro quelle righe.
Abbiamo litigato, ero furioso per la sua invadenza, ma come si permetteva di andare a mettere il naso nelle mie cose? Lui mi prese di petto, con forza. Le parole che mi disse rimbombano ancora nella mia testa: “Guarda quello che sei! Guardati dentro, e tira fuori le palle! Prendi quel male che hai e mettilo su quei cazzo di fogli, tu hai del talento David. Quando hai finito, e gli avrai dato un senso coerente, dai tutto a me che troverò un editore”. Mi aveva completamente spiazzato, lo devo ammettere»
«E lo credo, molto diretto. Ma vero, onesto.»
«Sì, ma io ero cocciuto sai, gli dissi che quel mio male non serviva a nessuno, e che il mondo faceva già schifo abbastanza anche senza le lamentele di uno stronzo in più. Lui mi rispose: “Sei testardo ragazzo. Vuoi capire quanto è importante riuscire a dar forma con le parole al dolore delle persone, che leggendo ciò che scrivi ci si rispecchierebbero? Molti, lasciati da soli, non hanno le capacità di riuscire ad esprimerlo, di porselo davanti, di studiarlo e poterlo combattere. Tu puoi fare la differenza, in questo puoi aiutarli tu, cosicché possano buttarsi tutto quello schifo alle spalle, perché non serve più! David, il potere della letteratura è immenso, ma oggi sottovalutato all’estremo. Che ne è dell’intelligenza quando questa è declinata in funzione delle sole macchine? Costui sarebbe l’Uomo?”
Fu questo a svegliarmi. Una doccia gelida, ma necessaria. Per la prima volta in vita mia tutto fu chiaro, i miei traumi, la mia estrema sensibilità, tutto aveva raggiunto un chiaro orizzonte di significato. Edoardo aveva donato a me ciò che credeva dovessi io donare agli altri. Con le sue parole, urlatemi in faccia più che elegantemente scritte in un libro, aveva dato voce ad un male che non avevo nessuna voglia di ascoltare e non ero nemmeno in grado di esprimere. Non ne avevo il coraggio. Probabilmente, pur soffrendo sino alla quasi totale autodistruzione, non ero neanche pienamente consapevole di quel cancro che mi stava uccidendo poco a poco. Fu come stappare una bottiglia di champagne, un’esplosione violenta, ma liberatoria. Guaritrice. Fu lì che iniziai a scrivere seriamente.»
«Devi tutto a quell’uomo»
«Sì, molto di quello che sono, lo devo a lui. Anche il lavoro che ho. Ovviamente non potevo continuare a spacciare se volevo sperare di smettere, e avevo bisogno di una regolarità, oltre che di entrate sicure, se volevo scrivere il mio libro. Lui mi presentò alla Speltrinelli, così mi trovò anche il lavoro. Disse che mi avrebbe ridato una dignità, almeno fino a quando non saremo riusciti a concludere il mio libro»
«Scusa, ma lui sapeva che avevi già una storia in mente, per il libro?»
«No, assolutamente! In realtà non ne avevo nessuna! Lui però era convinto che avrei ovviato facilmente a questo problema, ma quando gli dissi le mie preoccupazioni, e che una storia io non l’avevo, lui sbottò: “Ma sei cretino? Hai ventidue anni, sei tossicodipendente, spacci cocaina ed un professore universitario, a cui vendi la coca, decide di aiutarti a smettere con la droga, sfruttando il tuo notevole talento per la scrittura per riabilitarti…e tu non hai una storia? È già scritto questo libro, cazzo! Non metterai ovviamente i nostri veri nomi, perché altrimenti saresti proprio un pirla”. Quante risate che ci siamo fatti…»
«Sono proprio curiosa di leggerlo. E di conoscere il professore, naturalmente. Dev’essere una persona a dir poco interessante»
«Credo sia impossibile, purtroppo»
«E perché mai, non ti facevo un tipo così riservato»
«Non è questione di riservatezza. Quel libro non l’ho mai finito. Ed anche la seconda tua curiosità non ti potrà essere tolta. Quanto vorrei potesse essere il contrario. Una sera il prof era stato da me, avevamo mangiato assieme, ma poi lui è voluto andare a casa prima, aveva mal di stomaco, diceva. Ho cercato di mettermi in contatto con lui varie volte, nei giorni seguenti, avevo un brutto presentimento. Poi non ce l’ho più fatta e sono andato da lui, ma il portiere mi disse che era morto ed era già stato celebrato il suo funerale. Il mio presentimento ci aveva visto giusto. Edoardo aveva avuto un’infarto la stessa notte in cui aveva cenato da me. Non esser potuto andare al funerale mi a dargli l’ultimo saluto mi ha tormentato per anni. Proprio quando mi stavo rialzando, quando ce la stavo facendo, mi è mancata la terra da sotto i piedi. Tutto è andato a puttane, sono rimasto bloccato in quel lavoro di merda, il mio romanzo non l’ho mai finito, addirittura ne ho iniziati altri tre, ma hanno tutti avuto il medesimo esito, ovvero lasciati a marcire su di un hard disk senza aver superato le cinquanta pagine. È da allora che sono bloccato in un limbo.»
Iris guardava quel ragazzo seduto davanti a sé, quello sguardo spento, perso nel vuoto, era come un urlo silenzioso. Gridava amarezza, gridava rifiuto, in una zona dello spettro uditivo che però gli umani non percepiscono, se non con il cuore. Sapeva bene cosa stesse provando, lei stessa aveva avuto quello stesso sguardo in passato. Più volte la sua espressione si era trasformata in una smorfia di disgusto, storpiata dal ribrezzo per la situazione in cui versava. Quei tempi erano tuttavia passati, e non certo per puro caso. Aveva dovuto scuotersi di dosso da sé le zavorre dei propri blocchi e delle proprie paure, per poi alzarsi e cambiare quella condizione di merda in cui viveva da troppi anni ormai. Erano questi i sentimenti che la animavano in quei momenti, e forse proprio a causa loro, la risposta che le salì alla bocca fu più secca e spigolosa di quanto avrebbe voluto.
«Scusa, ma che cosa ti ha bloccato in questo limbo che dici, se non te stesso? Pensi che dobbiamo vivere solo grazie ed in funzione di stimoli che partono da altri? Credi davvero che sia di qualcuno all’infuori di te stesso la responsabilità di dotarti di un senso nella vita? Mi dispiace dovertelo dire, ma sei già morto in partenza se la pensi così.» Lui alzò lo sguardo, raggelato in un’espressione stupita. Non si aspettava di certo quella critica fredda e distaccata. Non ebbe il tempo di riuscire ad elaborare, che lei continuò:
«Io non lo so che cosa stai vivendo e non sono nessuno per giudicare, cerco di non farlo, ma vedo ciò che c’è dietro la tua espressione, e credo sia qualcosa che conosco bene. Io stessa avevo la stessa espressione fin non molto tempo fa. Io stessa morivo, giorno dopo giorno, di quel male che sembra uccidere te oggi.»
Sulle braccia di lei, a perenne testimonianza di quel dolore di cui stava parlando, erano stampate, indelebili, antiche e profonde cicatrici. Erano tagli netti, probabilmente opera di una grossa lama affilata. Ad Iris sembravano addirittura appartenere ad un’altra esistenza, tanto remota le appariva oramai ai suoi occhi. Purtroppo non era affatto così.
«Credo di parlare a ragion veduta, nonostante so benissimo di sembrarti troppo dura, ma forse è proprio quella durezza che mostro a te ora che mi ha salvato, non sarei qui a raccontartelo. Sono cresciuta con mia madre e mio fratello più piccolo, Alex. Fu quando mio padre se ne andò, lasciando me di dieci e mio fratello di appena due anni, che lei divenne un’altra. Era depressa, beveva in continuazione. C’erano giorni in cui era talmente fuori di sé per la vodka ed il valium, che da quella donna di appena un metro e cinquanta usciva un vero e proprio mostro. Era sadica, malata, e completamente folle. Per anni ho vissuto violenze ed abusi che non augurerei al mio peggior nemico, e di cui ancora oggi non parlo a nessuno, se non con la Morinelli»
«È davvero una brutta storia. In questi casi ogni parola sarebbe di troppo, mi dispiace moltissimo. Mi chiedo come hai fatto a sopravvivere a quell’inferno, da sola»
«Ho dovuto David. La durezza di cui ti ho parlato, ho dovuto riuscire a trovare quella, e tirarla fuori. Io non ero da sola, se così fosse stato sarei scappata il prima possibile, sarei andata dalla polizia, dai servizi sociali. Con me c’era Alex, non potevo abbandonarlo tra le grinfie di quella pazza scatenata, ma come potevo fare? Gli assistenti sociali ci avrebbero potuto dividere e in quel caso, che avrei fatto? Non avrei mai potuto accettarlo! Fortunatamente era soprattutto con me che se la prendeva, quando usciva di sé, ed io avrei protetto mio fratello ad ogni costo. Dovevo aspettare, aspettare che arrivasse il momento propizio. Ho vissuto tutta l’adolescenza in quell’orrenda situazione, senza possibilità di fuga e senza speranze. Pensavo che quando sarei divenuta maggiorenne, dopo la maturità, avrei potuto andarmene e portarmelo via, crescerlo io, ma dovevo scordarmi il mio sogno di diventare giornalista, come avrei potuto , da sola, mantenermi, pagarmi gli studi e tutte le spese mie e sue? Dovevo essere realista»
«Sì, era una situazione drammatica, apparentemente senza uscita»
«Certo, apparentemente, ma la via d’uscita in realtà c’era, dovevo trovare le palle di imboccarla. Quando ebbi diciotto anni e andavo già all’università, cercai un’associazione che potesse aiutarci, che potesse proteggerci, e grazie a Dio la trovai. Ci furono loro per noi, ci dettero ospitalità e pagarono le spese legali, così ottenni l’affidamento di mio fratello, oltre che gli aiuti economici per poter continuare a studiare e crescere lui. E così ho fatto, me lo sono tirato su da sola, anche quando stavamo ancora con mia madre lei era troppo occupata a bere e a vomitare per stargli dietro. Senza un soldo, un salto al buio, ma non so cosa ne sarebbe di lui ora, e di me, se non avessi trovato il coraggio per saltare. Un giorno di questi lo conoscerai, ora è a dormire dal suo migliore amico. Ti piacerà di sicuro, ma attento, è molto geloso di sua sorella»
«Farò attenzione, te lo prometto. Se ha anche solo metà della tua grinta dovrò stare in campana, con un tipo così.» Risero entrambi a quella battuta, forse più seria di quello che si potrebbe pensare.
Quel giovane uomo, nel fiore degli anni eppure in condizioni di estrema vulnerabilità, quasi fosse impantanato fino al busto in terribili sabbie mobili, vedeva nella ragazza dai lineamenti morbidi e dolci e dal nome esotico, una determinazione, una tale forza d’animo da lasciar annichiliti. Quell’energia era palpabile, si avvertiva nell’aria, pareva che niente la spaventasse, eppure aveva detto di soffrire di attacchi di panico, di evitare i luoghi pubblici come i ristoranti. C’era una contraddizione evidente in tutto ciò.
«Lo so a che cosa stai pensando. Ti stai chiedendo come possa una ragazza che ha affrontato tutto questo, che ostenta tanto coraggio e sicurezza, avere poi paura di entrare in un ristorante, atterrita all’idea di un attacco di panico»
«Beh, mi hai effettivamente letto nei pensieri» disse l’uomo con un po’ di imbarazzo nella voce.
«La verità è che per quanto io voglia dannatamente mostrare il contrario, dentro sono sempre la solita ragazzina vittima di abusi che trema di terrore. Sono una codarda. La forza che mi autoconvinco di possedere, e che cerco a volte platealmente di ostentare, è in realtà uno stato a cui aspiro, a cui tendo, ma dal quale mi sento sempre inesorabilmente esclusa. Non smettiamo mai di essere fragili e vulnerabili David, mai, anche i più duri al mondo, de facto, nel loro intimo sono solo ragazzini spaventati. Questo però non ci dispensa dall’affrontare le nostre paure, ostinatamente verso un continuo miglioramento, senza mai gettare la spugna. Possiamo inciampare, è umano cazzo, ma dobbiamo aggrapparci con tutte le forze alla prima cosa che ci capita a tiro e ci dobbiamo rialzare, sempre.»
Le parole di quella giovane, venticinque anni appena, ma con l’esperienza ed il coraggio di chi ha sfidato l’inferno pur di avere il sufficiente per una vita degna di tale nome, ispirava in David un tale rispetto. Ne era ammaliato. La lampada dell’Himalaya creava un gioco di luci ed ombre sul viso di lei. I suoi occhi, a causa dei riflessi rosei del cristallo di sale, sembravano due pezzi di ambra levigata, e quelle labbra carnose parevano ancor più gonfie, grazie all’effetto che la penombra le donavano. David era come stordito, quasi avesse bevuto un paio di bicchieri. Quanto avrebbe voluto baciare quelle labbra, stringerla a sé. Non voleva però in nessun modo darle la falsa impressione di volerla solo possedere, come un trofeo o un’esperienza in più da raccontare agli amici. David era schifato da uomini del genere. Erano loro due, soli. Una posizione alquanto scomoda, per entrambi. Il forte desiderio di lui stava cominciando a fargli perdere lucidità, e nonostante tentasse in tutti i modi di tenere a bada le sue pulsioni, come acciaio attratto da un enorme magnete, queste lo attiravano a lei. Aveva paura che lei notasse quel suo conflitto interiore, quella era l’ultima cosa che voleva, quindi, ricomponendosi, tentò di salvarsi in corner, e fece per alzarsi.
«Sì è fatto tardi, credo sia meglio andare ora.» L’espressione di Iris quando ascoltò quella frase lasciò trasparire un accenno di perplessità, David non capì se ci fosse qualcosa che dovesse chiedergli, oppure che la stava preoccupando. Lei restò in silenzio, ma la sua titubanza riempì d’impatto la stanza, quindi il ragazzo, a sua volta preoccupato, chiese:
«C’è qualcosa che non va? Ho detto forse qualcosa che non dovevo?»
«No, tu non hai fatto niente, davvero. Oddio, mi sento una deficiente -era visibilmente imbarazzata, sentiva di star arrossendo- Non voglio darti una brutta impressione, so che fare una richiesta del genere non è proprio la più brillante delle uscite, ma Alex torna domani, e io non sono tranquilla a stare qui da sola. So benissimo che non succederebbe niente, la casistica dei furti in appartamento con i proprietari all’interno in realtà è esigua, ma so che rimarrei tutta la notte sveglia a cercare di identificare ogni rumore. Per favore, rimani qui questa notte. Ti va?»
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Si erano addormentati l’uno accanto all’altra, sfiniti, dopo ore di risate scomposte e discorsi che non avevano fine, dove ogni parola era spunto per un nuovo aneddoto, ogni espressione riportava ad un vissuto abbastanza interessante da esser condiviso, così, a ruota libera. Aveva cercato in ogni modo di mantenersi alla giusta distanza fisica da lei, era diversa e non voleva commettere errori questa volta. Iris lo aveva capito. Non voleva certo provocarlo, ma quel ragazzo dai mille problemi a lei piaceva, perché lo capiva, e comprendeva le ragioni di quella distanza che insistentemente frapponeva tra di loro. Era una forma di rispetto che nessuno le aveva mai riservato, prima di allora. Quando David però fu quasi totalmente tra le braccia di Morfeo, lei spense la piccola lampada sul comodino e gli si avvicinò. Le ispirava tenerezza. Volle baciarlo sulla fronte, ma quando fu così vicina da sentire il calore del suo viso sul proprio, deviò istintivamente verso le labbra, che baciò di un bacio profondo, ma ancora puro. Non parlava ancora di corpi e di istinti, quel bacio, ma era frutto del trasporto di un cuore che non riesce a contenere entro se stesso ciò che prova. Sdraiandosi a fianco a lui appoggiò la testa sul suo petto e lo abbracciò. Le labbra dell’uomo si distesero in un sorriso, ed un profondo respiro, a pieni polmoni, fece salire e poi scendere il suo diaframma. Era felice. Lo erano entrambi.
Qualche ora passò, e nella totale oscurità gli unici suoni erano i due respiri che, profondi, si intersecavano l’uno all’altro, alternativamente. Il ticchettio del grande orologio alla parete era il solo suono che non provenisse da loro, in quella stanza. Di colpo, senza alcuna evidente ragione, David spalancò gli occhi, tornando cosciente. Non capiva dove fosse, la mente era annebbiata e confusa, non riusciva a ricordare. Era pienamente consapevole, ma non aveva alcuna autorità sui suoi arti. Il suo corpo ricordava il rigor mortis, tanto era rigido, ma lui era vivissimo, ne era convinto! Tentava con tutte le forze di vincer quel torpore, ma gli era impossibile, l’unica parte del corpo che poteva ancora muovere erano gli occhi. Il suo sguardo si mosse da una parte all’altra della stanza, e si posò sull’enorme orologio da muro, con le lancette ed i numeri illuminati da quella particolare fluorescenza che permette di vedere l’ora anche al buio. Le lancette segnavano le tre in punto.
Un suono forte, acuto, sembrò sfondargli i timpani, anche se non riusciva a capire se venisse da dentro, o da fuori il suo corpo. Era un suono meccanico, simile a quello che si può sentire avvicinando un microfono all’amplificatore a cui è collegato. Lo faceva impazzire, più tentava di scuotersi più il senso di panico cresceva e sembrava stringergli la gola in una morsa, soffocandolo. Improvvisamente una luce di un blu elettrico investì la stanza. Con la coda dell’occhio vide Iris accanto a lui, e ricordò istantaneamente di aver passato la sera con lei e di essersi addormentato a casa sua. La ragazza era immobile, non poteva esserne certo, ma alla sua visione periferica lei sembrava avere gli occhi aperti. Cosa sta succedendo, sono sveglio o sto sognando? Ai piedi del letto si materializzarono tre figure di bassa statura, non superavano il metro e venti. David, terrorizzato oltre misura, non poteva parlare, né gridare, ma sentiva benissimo la sua stessa voce rimbombargli nel cervello.
«Sono tornati! Che volete da me? Bastardi!» Quasi istantaneamente, gli esseri risposero al suo pensiero inespresso
«Il nostro compito qui non è finito. Devi venire con noi.» Ogni millimetro del ragazzo risuonava al proprio interno del suono di quelle tre voci che parlavano all’unisono, o meglio, pensavano all’unisono. Non ebbe il tempo di stupirsi per quel fenomeno inusuale, che sentì una potente e gutturale vibrazione scaturire dall’interno del suo corpo. Si senti sollevare, levitando, vittima di quella straziante sensazione che tutto quel vibrare pareva scatenare in lui. Se l’angoscia avesse come controparte fisica un identificabile e preciso dolore, sarebbe certo ciò che provava lui, le esatte caratteristiche, la medesima agonia che stava tormentandolo.
Il suo corpo veniva sollevato e lui non poteva vedere nient’altro che il soffitto avvicinarsi. Nel suo cervello, cantilenanti e sinistre, le tre voci continuavano, verrai con noi, hai un compito importante, starai bene. Per quanto il significato di quelle parole fosse apparentemente positivo, David sentiva intuitivamente che stavano mentendo, ne era certo. Era impotente. Che cosa poteva fare? Non voleva vivere quell’esperienza, sapeva che era già successo, ma per qualche motivo non ne serbava il ricordo, perché questa volta stava vivendo tutto consapevolmente? Pregava, dentro di sé, Dio o chi per esso, di risparmiarlo da quel supplizio, pregava che fosse tutto solamente un terribile incubo, in verità però, sapeva bene essere reale. Ci fu un momento in cui la tensione raggiunse l’apice, la sua percezione andava distorcendosi come distorto gli appariva il tempo. La coscienza non accennava ad abbandonarlo, divenne consapevole di essere in trappola, avrebbe vissuto tutto in stato di veglia, a quel punto ne era certo. In un attimo però, tutto fu bianco.
Aaaaahhhhhhhh!! Un urlo straziante attraversò la camera da letto, svegliando Iris di soprassalto. La donna trovò David con lo sguardo perso nel vuoto, tremante e madido di sudore.
«Hey, non ti preoccupare è solo un brutto sogno. Ci sono qui io con te, non è successo nulla.» Nonostante la voce carezzevole ed il tono rassicurante di lei, David non ne voleva sapere di calmarsi, era in stato di shock.
«Sono tornati»
«Chi sono tornati?»
«Loro»
«David, stavi dormendo qui accanto a me, hai avuto solamente un incubo»
«No, non era un incubo! Loro sono reali.» Vedendo che il ragazzo non dava alcuna risposta razionale, ed il suo sguardo era ancora fisso, perso in un imprecisato nulla nel buio davanti a sé, ed il suo colorito non prometteva niente di buono, Iris poggiò la mano sulla sua fronte, per sincerarsi della sua salute. Effettivamente la fronte scottava.
«Tesoro, hai la febbre alta, forse è il caso che ti dia un’aspirina. Sai, da piccola sognavo anche io i mostri, quando ero malata»
«Ma allora non capisci! Ti dico che non era un sogno, io li ho visti! E non è la prima volta!»
Iris comprese che non era il caso di continuare quella discussione, David non era abbastanza lucido da poter essere razionale. L’atmosfera si freddò, e quei due universi che per qualche ora erano stati così armonici, erano separati ora da quella che sembrava un’enorme distanza.
Lui si alzò, e andò verso il bagno. Iris rimase sola, seduta con le gambe incrociate sul letto, con un’espressione triste e al tempo stesso avvilita. Non era stata una bellissima scena vedere quel ragazzo tanto dolce fino poche ore prima, scaldarsi a tal punto sostenendo quelle affermazioni deliranti. Aveva visto qualcosa in lui, in quell’istante, e non era niente di buono. Dopo qualche secondo di quei ragionamenti, David, paonazzo e con gli occhi fuori dalle orbite, uscì dal bagno tenendosi sollevata la maglietta sul petto:
«E questi pensi che me li abbiano fatti i mostri dell’incubo?»
Sul suo ventre c’erano dei segni profondi, delle ferite fresche che però, curiosamente, non davano segni di sanguinamento. Iris era sconvolta.
«No dico, sei davvero arrivato al punto di andare in bagno a tagliarti per dare credibilità ai tuoi deliri? Ora capisco perché ti segue la psichiatra.»
Sul volto di lui comparve l’espressione di un uomo ferito, deluso, affranto. La concitazione presente fino a qualche secondo prima era scomparsa e, con fare avvilito, rispose:
«Non li ho fatti io questi tagli, non sono stato io ti dico. Mi ferisce pensare che non mi lasci nemmeno il beneficio del dubbio.» A quel punto allora, a mo’ di sfida, Iris sollevò entrambe le maniche della maglietta che portava per dormire, mostrando gli avambracci e le evidenti cicatrici disposte parallele l’una all’altra che li deturpavano, spesse almeno qualche millimetro.
«Pensi allora che vengano a fare visita anche a me i tuoi mostri?»
David non rispose a quella domanda retorica ed offensiva, fece per prendere le sue cose e per andarsene. Si erano appena conosciuti, e sembravano inizialmente così compatibili, ma evidentemente quello per lui non era che l’ennesimo abbaglio, quanto si odiava per quella sua ingenuità.
«Non andartene, per favore. Scusami, ho sbagliato a comportarmi così, non avrei dovuto. Ciò che racconti però sarebbe incredibile per chiunque, lo capisci vero?»
La sua risposta si limitò ad un cenno col capo, rassegnato. Non disse altro quella notte, se ne andò. Sapeva, tuttavia, che Iris aveva ragione, nessuno avrebbe mai creduto a quella storia fantasiosa, questo lo faceva andar di matto.
Passò i giorni seguenti con la mente sempre rivolta a lei, così come il cuore, e Dio solo sa quanto soffrisse. In qualche modo lui sapeva che, se una sola è la donna che il destino riserva ad ogni uomo, il grande amore, beh doveva necessariamente essere Iris.
Al lavoro era un fantasma, il suo corpo era lì, ma come un guscio vuoto. Si sentiva in trappola, letteralmente. Da dove venivano quegli esseri? E che cosa volevano da lui? Ma soprattutto, erano reali? Non lo sapeva, non si poteva fidare di quel suo cervello malato, dopo tutti quegli anni in cui lo aveva martoriato con le droghe. Quei pensieri non lo abbandonavano, erano diventati ormai, comprensibilmente, un’ossessione. La cosa che più lo faceva soffrire, era il non poterne parlare con nessuno, chi avrebbe potuto capire? Lo avrebbero preso per pazzo, lo avrebbero rinchiuso.
Stava cercando di escogitare un modo per vederci chiaro, operazione alquanto difficile per qualcuno che naviga costantemente nei mari della psicosi, con solo qualche attimo di lucidità. E chi lo sapeva quale era la realtà, se questa fosse stata proprio la psicosi? All’improvviso ebbe un’illuminazione: avrebbe potuto scrivere, scrivere la sua storia dal principio, i punti salienti, e capire così se vi fossero stati nella sua infanzia episodi riconducibili a quello strano fenomeno di cui era vittima. Avrebbe potuto poi analizzare i tempi recenti, diciamo in chiave psicanalitica, se fosse stato davvero pazzo lo avrebbe capito. Aveva bisogno di razionalità, di lucidità, di comprensione. Analizzare dall’interno un problema è una delle più complesse cose che ci siano, e non potendo parlare con uno psicologo o chi altro, scrivere era certamente l’idea migliore.
Scrisse ogni notte, lo doveva alla sua salute mentale, drogandosi di caffè e sigarette, in maniera quasi automatica, come una macchina che si muove senza uno scopo, freneticamente. In quei giorni dormiva solo poche ore per notte, tanto bastava a non collassare sul posto di lavoro, e sul suo corpo i segni di quella sua nuova routine stavano cominciando ad essere evidenti, dimagriva nuovamente a vista d’occhio, i suoi colleghi si chiedevano se un giorno sarebbe scomparso dalla faccia della terra, a furia di perdere peso. La loro era una preoccupazione più che legittima, una mattina la sua bilancia gli portò il nefasto verdetto, cinquantacinque chili, non aveva avuto il coraggio di guardarsi allo specchio quel giorno, per paura del rimprovero che il suo riflesso gli avrebbe rivolto.
Eppure quegli ultimi periodi aveva nuovamente staccato con le droghe, era già fin troppo difficile così mantenere una qualche stabilità mentale. La sua vita era diventata un vero e proprio bad trip anche senza far ricorso ad alcun tipo di allucinogeno.
In quel momento l’unico suo obbiettivo, sul quale concentrava tutta la sua attenzione, era riuscire a capirci qualcosa, trovare, indagare in se stesso e nel mondo che aveva attorno, per riuscire a districare l'intricata matassa. Nei rari momenti che aveva liberi si metteva al computer e cercava furiosamente in ogni anfratto di internet delle valide informazioni, tra la marea di mistificazioni e balle vere e proprie che intasavano la rete. Bastava digitare sulla query di ricerca di Google quei termini surreali, i quali non aveva nemmeno il coraggio di pronunciare, che una carrellata di pagine web, forum, video di esperti, professori e testimonianze delle vittime, lo avrebbero investito.
Oramai doveva fare i conti con quella che, fino a prova contraria, sembrava essere la sua realtà, fu una sfida anche solo nominare quegli strani termini che parevano essere usciti da un romanzo di fantascienza di second’ordine: rapimento alieno, o per dirla con gli anglofoni, abduction.
Per quanto possa sembrar paradossale, aveva dovuto mettere da parte il suo abituale senso critico, se voleva essere critico davvero. Aveva delle continue resistenze interiori, attimi in cui sì ho capito, lo devo ammettere, sono un rapito, ad altri in cui questo non può essere, mi sono bevuto il cervello, devo farmi rinchiudere. Erano questi i tormenti interiori che lo mantenevano in un costante stato di tensione.
Fagocitò enormi quantità di informazioni, perlopiù vaneggianti e mere speculazioni, ma nel mucchio qualche pepita gli parve di trovarla. Aveva saputo che prestigiosi uomini di scienza e non solo si erano interessati al fenomeno, studiandolo a fondo. Tra questi si era interessato al lavoro di un noto psichiatra e professore di Harvard oggi scomparso, Matt Wilson, così come degli studi di un docente universitario italiano, titolare della cattedra di chimica di un’università toscana. Capì che la teoria che andava per la maggiore vedeva gli alieni interferire nelle vite di qualche malcapitato, sfruttando od inducendo stati alterati di coscienza e le vulnerabilità connesse, per attuare misteriose operazioni di tipo medico, riuscendo addirittura a cancellare il ricordo nei rapiti, o ancora a coprire questo con un falso ricordo. Si è potuto tuttavia, attraverso l’ipnosi, andare a recuperare quei frammenti di esperienza dallo stato subconscio e in qualche modo ricostruire tutto il tempo mancante. Lesse poi di particolari segni sul corpo degli addotti, era questa la trasposizione italiana dell'esatto termine, specifiche cicatrici in posti ben localizzati del corpo umano. Qualche studioso azzardò addirittura l’affermazione per la quale la maggioranza dei rapiti aveva, a mo’ di marchio, una distinta e vecchia cicatrice proprio sotto il ginocchio sinistro, sulla parte superiore dello stinco. Vide anche delle fotografie, e volle per sicurezza controllare la propria gamba, pur essendo certo di non averne alcuna. Divenne bianco come un cencio quando, alzati i pantaloni, vide un solco circolare del diametro di circa otto millimetri, e di una certa profondità, deturpargli lo stinco. Tastando con le dita, sentiva addirittura mancare una parte di osso, come se fosse stato oggetto di un prelievo. Guardando bene, la cicatrice presentava al suo interno una strana trama, che ricordava la forma di un sole stilizzato disegnato da un bambino. Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a ricordare come se l’era potuta procurare, non ne aveva la più pallida idea. Per quanto potesse leggere però, anche tra i sostenitori più convinti della teoria del rapimento alieno, non si era ancora arrivati a spiegare in maniera chiara ed inoppugnabile la reale motivazione che sta dietro a questi fenomeni. Era un campo tutt’altro che esplorato. Lesse anche di impianti ritrovati da chirurghi all’interno dei corpi di persone che sostenevano di essere vittima di abduction, ma, come sempre, c’era chi accusava i medici che avevano eseguito tali operazioni di mentire spudoratamente.
Ci fu però un’informazione che lo interessò particolarmente. Questa era una teoria enunciata da un ricercatore, Rick Strassmann, uno psichiatra americano, autore di un libro tanto rivoluzionario da esser stato accolto a braccia aperte dalla cultura psichedelica: “DMT - La molecola dello spirito”. Sì, esattamente la droga con cui David aveva avuto quel viaggio terrificante in quell’ambiente inusuale, con la donna immobilizzata su di un lettino operatorio.
Si trattava di un dettagliato studio su questa molecola endogena, prodotta cioè all’interno del corpo umano, ma utilizzata, quando di sintesi o per estrazione, anche a scopo ricreativo o nello studio degli stati altri di coscienza, essendo fortemente allucinogena. Lo studioso comparava gli stati profondi di meditazione e quelli mistici all’effetto di alte dosi di questo alcaloide. Aveva trovato delle indubbie connessioni, ma ciò che più interessava David era un altro, a dir poco ambiguo, effetto. Il dottor Strassmann aveva visto una potenziale correlazione tra l’esperienza visionaria sotto dmt ed il cosiddetto rapimento alieno, dopo accurati studi su soggetti volontari. Questi, di ritorno dal trip, tornavano con resoconti di incontri con esseri alieni, altre dimensioni e chi più ne ha più ne metta. Anche la letteratura psichedelica era piena dei racconti di queste esperienze con la dmt. Questa poteva essere di certo una buona pista, ma come spiegare le cicatrici fisiche degli addotti? La teoria del dottor Strassmann non lo poteva. Aveva però evidenziato questa connessione tra i due fenomeni. Alla luce di queste nuove informazioni, il ragazzo vedeva ora quella sua terrificante esperienza sotto dmt da prospettive che non aveva considerato prima. E se quello fosse stato un incontro su di un altro piano, se quello fosse stato il modo per contattare quegli esseri alieni che tormentavano le sue notti, cogliendoli di sprovvista e potendo quindi competere quasi alla pari? Aveva visto una ragazza in una strana sala operatoria, immobilizzata da sconosciute tecnologie, doveva essere certamente a causa di quegli esseri ripugnanti. Con uno aveva anche parlato, o quasi, nonostante non riuscisse a vedere che gli occhi.
David aveva ancora a casa abbastanza dmt da organizzare un’intera delegazione diplomatica! Quella forse era un’idea, una possibile strategia! Quali altre opportunità avrebbe avuto sennò, di guardarli diritti in faccia, e perlomeno di dirgli che lui ne aveva abbastanza del loro fottuto bullismo interplanetario. Glielo avrebbe detto a muso duro cazzo, avrebbero potuto ucciderlo, non che avesse molto da perdere, ma non voleva sprecare quest’occasione. Avrebbe progettato tutto per bene, si sarebbe preparato, avrebbe meditato, e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Non ricordava poi molto dell’esperienza in dmt, ma di una cosa era certo, l’espressione di sorpresa che aveva visto in quei due enormi occhi. Non se l’aspettavano, ma come, una società intergalattica che si fa cogliere impreparata da un tossico che ha fumato dei cristalli!
-11-
Quella settimana era stata per lei una delle più difficili degli ultimi anni. L’incontro con quello psicopatico la aveva a dir poco scossa, tant’è che ne aveva paura. Non lo conosceva affatto, e se quello la fosse venuta a cercare in preda a chissà quali deliri, che avrebbe fatto? No, ma dico, ma stiamo scherzando? Quello è fuori di testa! Aveva visto il suo sguardo appena uscito dal bagno, con quei tagli su tutto l’addome. Ma chi pensava di impressionare, proprio lei? Una che ha passato l’intera adolescenza a stamparsi sulle braccia l’odio per se stessa e per il mondo, quello aveva proprio sbagliato persona con le sue cazzate. Poi era tossico no? I tossici di crack sono i peggiori, almeno nel reparto “salute mentale”, tutti lei se li doveva raccogliere i pazzi di Torino. A lui non gliel’aveva detto, non voleva ferire la sensibilità di uno che, fino a quel momento, sembrava a posto, ma il suo ex era un craccomane, e non è certo un’esperienza che avrebbe voluto ripetere.
Ma di chi diavolo stava parlando? Quello è psicotico. Sarà anche psicotico, ma quel tipo l’aveva colpita, anzi, a dirla tutta l’aveva travolta. Ma perché i tipi che sembrano a posto e perfetti per me, poi si rivelano degli schizofrenici o dei tossici? Questa domanda restava sempre senza risposta, rimbalzava da una parte all’altra del suo cervello in quei giorni. Eppure lui le ricordava qualcuno, ma chi? Forse qualcuno che conosceva quando era piccola, sì, doveva essere certamente qualcuno della sua infanzia, David aveva qualcosa di molto familiare, qualcosa di “antico”, forse uno zio, o un amico di famiglia, forse qualcuno conosciuto quando era ancora troppo piccola per ricordare. Ciò che però è certo, è che era una settimana che continuava a pensarlo, di continuo. Al lavoro, al bar, le avevano chiesto dove ha la testa, almeno tre volte al giorno sbagliava le ordinazioni, e tutto per colpa di quel tipo. Certo che era strano, come è possibile per una persona cambiare radicalmente, da uno regolare, equilibrato ed in gamba, ad un altro in un paio d’ore diametralmente opposto, infervorato, fanatico?
Il ricordo di quegli occhi non la abbandonavano mai, un misto di marrone e verde, con le pagliuzze oro all’interno che luccicavano. Maledetto! Mi ha proprio fregata, lo stronzo. David non l’aveva toccata, se ne stava andando senza provare a ficcarle la lingua in bocca, senza cercare di portarsela a letto, quasi avesse paura di mancarle di rispetto, eppure sembravo piacergli. È stata lei, addirittura, a chiedergli di restare. Lui non avrebbe voluto. Avevano dormito assieme, nello stesso letto, ma oltre a qualche tenerezza, per quanto entrambi lo avrebbero desiderato, era evidente, nessuno dei due si è spinto più in là, “come se da me lui cercasse qualcosa di più che il solo mio corpo. Uno che dormisse con me e che non alzasse le mani non mi era mai capitato. Ma poi cosa gli è preso? Perché se n’è uscito di testa così, mi faceva paura. Certo, anche io l’ho ferito, su questo non ci sono dubbi, l’ho visto nei suoi occhi. Ma…se lui credeva davvero a quello che mi stava dicendo, su quelle ferite?” Quella possibilità le ghiacciava il sangue, e ad essere sinceri, sotto sotto, si sentiva chiaramente in colpa per come lo aveva trattato. È che era stufa di malati e gente simile, ne aveva le palle piene, letteralmente. “Ha preso le sue cose e se ne è andato, certo che devo essere stata proprio una stronza”.
David però, prima di uscire di casa, nonostante fosse furioso, o meglio, indignato per il trattamento subìto, le aveva lasciato un post-it sul frigorifero: - Se mi concederai prima o poi il beneficio del dubbio, e delle scuse, chiamami. 331/392392392 -
Doveva essere sincera con se stessa, più volte aveva preso in mano il telefono per chiamarlo, quella settimana, inutile negarlo. Si era sempre fermata dopo aver composto il numero, non aveva mai avuto il coraggio di premere il verde, era bloccata. Restava però in lei, immancabilmente, un profondo senso di vuoto. Una chiara e fastidiosa sensazione di incompiuto la tormentava, per quanto avrebbe resistito?
Un mattino si era alzata dal letto con uno strano malessere, il ciclo non doveva essere, per quello mancava ancora una buona settimana, forse, pensò, mi sto prendendo un’influenza, cosa assai rara a giugno. Non se ne curò più di tanto e andò al lavoro come ogni santo giorno. Via via che passavano le ore il suo non stare bene sembrava aggravarsi, aveva dei fastidiosi giramenti di testa, come dei cali di pressione, ed un diffuso ma ingiustificato senso di allarme. Non poteva lavorare in quelle condizioni, ed Attilio, il suo capo, la mandò a casa a riposare.
«Prenditi qualche giorno, signorina, e riguardati, mi raccomando. Chiamami domani per dirmi se stai meglio»
«Lo farò Attilio, grazie, davvero.» Tanto sono io che non vengo pagata, se resto a casa. Ah, i vantaggi del lavoro nero! Era comunque realmente grata al suo titolare per il suo comportamento, non era da tutti, purtroppo.
Quando fu a casa si buttò direttamente nel letto, non aveva la forza di alzare un dito. Fortunatamente Alex, il fratello, era a casa.
«Me lo faresti un tè caldo per favore? Sono K.O. Credo di essermi presa qualcosa.» Alex, che era un ragazzone biondo di più di un metro e ottanta, non batté ciglio, e si mise a preparare il tè per la sua adorata sorella. Non aveva neanche diciotto anni, ma ne dimostrava qualcuno in più. Iris per prenderlo in giro gli diceva che sembrava uscito da Baywatch, un surfista playboy della California. Si sganasciavano sempre dalle risate quei due, erano molto uniti. Quando il tè fu pronto, il giovane trovò la sorella dormire di un sonno pesante. Le posò la mano sulla fronte, che era fresca, quindi pensò bene di lasciarla dormire. Aveva ancora i jeans addosso, doveva stare veramente male, pensò.
Iris non si accorse nemmeno di essersi assopita, e per qualche decina di minuti almeno, la sua coscienza non rispose all’appello. Da un attimo all’altro, dopo quella che avrebbe potuto benissimo essere l’eternità intera per lei, la sua consapevolezza riemerse, annaspando, con la stessa foga di qualcuno che ha avuto la testa sott’acqua per un po’ troppo tempo. Non ricordava nulla, né che facesse fin qualche istante prima, né che cosa ci stava a fare in quel posto buio, misterioso.
Camminava a tentoni, scalza, su di un pavimento gelido e liscio. Alle narici le arrivava un forte odore di un qualche prodotto chimico, di disinfettante o che altro, non lo sapeva. C’è puzza di ospedale qui, sono finita in ospedale? Ma come? Era talmente disorientata, comprensibilmente. Sentiva un rumore diffuso, una sorta di grave vibrazione, meccanica, o forse magnetica, pervadere ogni cosa, così anche le pareti a cui le sue mani si accostavano cercando un qualche interruttore. Esse vibravano. Con fare incerto tentava di orientarsi in una totale oscurità, non aveva mai visto tanto buio in tutta la sua vita.
Ma dove diavolo è la luce?
Istantaneamente, quasi quel pensiero inespresso fosse stato interpretato da chissà quale volontà o tecnologia, una forte e diffusa luce bianca invase ogni cosa, rivelando alla donna qualche informazione in più su quel luogo sconosciuto. Era una sorta di corridoio, un posto ambiguo, le cui pareti ed i pavimenti parevano prodotti da un unico stampo, erano un tutt’uno, senza segni di giunture, saldature o che altro. Non era certo un ingegnere, ma non serviva chissà quale formazione per notare la sbalorditiva natura di quegli spazi e di quei materiali. Non vi era fonte di luce riconoscibile, questa sembrava uscire da ogni poro della materia che aveva di fronte, era onnipresente. Un’altra cosa curiosa che notò, era che il suo corpo non proiettava alcuna ombra, niente di niente, come se non esistesse, come se non vi fosse nulla ad opporre resistenza a quella luce, cosa già di per sé incredibile. Continuò a camminare, con fare attento, quasi furtivo, esplorando quella sorta di tunnel, per vedere dove portasse. Ma come ci sono finita io qui? Questo è tutto fuorché un ospedale, di sicuro. Devo essere svenuta, e qualcuno mi ha portato qui, poi piano piano ho ripreso lucidità, ma non ricordo nulla, forse è una leggera amnesia temporanea. Certo, dev’essere andata così. Cercava in ogni modo di razionalizzare l’irrazionale, di aggrapparsi a qualcosa di pur sempre logico, è questa la natura umana.
Cominciava a sentire un qualche mormorio, come un vociare lontano, allora non era sola, doveva raggiungere chiunque fosse in quel luogo e chiedere spiegazioni. Quindi affrettò il passo, quasi correva in quella strana galleria in cui ci stava appena, essendo questa alta non più di un metro e ottanta centimetri.
«Che cosa volete voi da me? Ditemelo!»
Quella frase carica di emotività la aveva raggiunta, freddandola, da un luogo che sembrava essere nelle vicinanze. Si era bloccata, chi mai poteva essere tanto turbato? Tutto ciò è a dir poco inquietante. Quella voce le era familiare, ma non era ancora riuscita a collocarla. Cercò di avvicinarsi, facendo meno rumore possibile, al luogo da dove proveniva quella voce. Era arrivata ormai quasi alla fine di quella galleria, e si fermò proprio sul ciglio che dava su di una grande sala che ricordava la forma di un diamante, aveva sei lati che la delimitavano e tutti questi si univano in un vertice a dieci metri circa di altezza. Cautamente si sporse per vedere chi ci potesse essere, facendo però ben attenzione a non essere scoperta. Non era possibile, forse stava sognando, sì quello doveva essere necessariamente un sogno, non voleva credere ai suoi occhi!
Vide, su tredici sedili, altrettante strane creature, dalla testa enorme, sproporzionata! Alla vista di quello spettacolo era a dir poco terrorizzata, gli esseri non assomigliavano a niente che avesse mai visto, il loro cranio era come diviso al centro in due parti, e quella particolare forma ricordava quella di un cuore. Il colore era di un biancastro sporco, tendente al grigio, e poteva chiaramente vedere, nonostante la distanza, delle vene violacee sottopelle. Erano molto alti, forse più di due metri, ma non lo poteva dire con certezza, erano seduti. Portavano delle lunghe tuniche, che a parte l’individuo al centro, erano bianche. Ciò che spaventava di più però erano di sicuro gli occhi, grandi, abnormi occhi completamente neri, che riflettevano la luce. Che razza di sogno era mai quello? Fu però quando vide un uomo liberarsi da qualcosa che lo immobilizzava su di una sorta di tavolo in metallo, e scagliarsi con violenza contro uno di loro, che sentì le sue forze vitali mancare. Stava perdendosi. Se avesse potuto vedersi, Iris si sarebbe spaventata del suo stesso pallore. Quell’uomo dallo sguardo indemoniato, che urlava fuori di sé cercando di colpire l’essere che sembrava il capo del gruppo, per quanto impossibile da credere, beh, quello era David. Non riuscì a vedere il pugno di lui scagliarsi su quel viso raccapricciante, non riuscì a formulare nessun pensiero che potesse aiutarla a razionalizzare quella scena da incubo che la luce si spense. Iris non c’era più.
David non aveva lasciato nulla al caso, si era preparato con cura. Per una settimana aveva cercato di “centrarsi”, con delle meditazioni mirate, fortunatamente in quel frangente era quasi esperto, erano ormai tanti anni che meditava più o meno costantemente. Voleva migliorare con quelle meditazioni la sua capacità di gestire le emozioni, si rivelava questo un aspetto fondamentale di quello che si accingeva a fare. Non poteva certo permettersi di farsi prendere dal panico, o farsi offuscare la mente da inutili turbamenti una volta che si fosse trovato in quell’ambiente ostile e sconosciuto. Sempre che ci fosse riuscito, non aveva nessuna garanzia che fumando nuovamente la dmt si sarebbe innescato lo stesso strano fenomeno, e che verrebbe nuovamente catapultato al cospetto di quegli esseri.
Aveva identificato degli obbiettivi per quella che doveva essere una missione di ricognizione, per studiare l’ambiente e per capire se vi fosse una qualche possibilità di reagire, di prendere il controllo, anche se in minima parte. Su di un foglio che aveva attaccato alla parete aveva scritto in grandi caratteri i seguenti punti:
1° Studiare l’ambiente
2° Cercare in loco un qualche tipo di arma
3° Trovare informazioni e possibili alleati (prigionieri, disertori ecc.)
4° Prendere di sorpresa gli alieni e capire se è possibile riuscire in uno scontro fisico
5° Quando e se tutti gli obbiettivi sono stati raggiunti, cercare di far ritorno al corpo fisico
Aveva paura, questo è ovvio, ma era determinato a cambiare il suo ruolo di vittima impotente in quella rappresentazione. Di certo aveva anche una gran dose di ingenuità, e forse spavalderia.
Aveva preparato una grossa dose di cristalli, tanto da essere certi di stare di là completamente, non voleva sorprese, tipo l’essere metà qui e metà lì, impotente su entrambi i fronti. Per un’ora era rimasto in uno stato di profonda meditazione, focalizzando tutto se stesso nel punto tra le sopracciglia. Il modo migliore per non essere sopraffatti dalle emozioni consisteva nel distaccarsi completamente, essere consapevoli di essere di più del solo proprio misero corpo. Tutto sarebbe andato come doveva, era questo il suo pensiero.
Non aveva nemmeno finito di aspirare tutto quel fumo denso dal sapore disgustoso dalla pipa, ripetendosi mentalmente portami su quella nave, che si ritrovò all’istante proprio lì dove voleva andare, in una sala da teatro degli orrori. Molto grande e scura, era questa inondata di una forte luce blu elettrico, che proveniva da degli strani ed enormi contenitori cilindrici, disposti lungo le pareti a due a due e a poca distanza l’uno dall’altro. Ce n’erano davvero molti, di un materiale simile al vetro e parevano contenere una sostanza semiliquida, tipo un gel. Sembrava proprio quella strana materia emettere la luce blu. Nelle vicinanze non pareva esserci nessuno, grazie a Dio, ma era talmente preoccupato di un incontro non gradito, da avere l’udito disturbato dal suo stesso battito cardiaco, tanto era agitato, che colpiva imperterrito e violento come una scure su di un tronco massiccio.
Si avvicinò ad una coppia di quei cilindri alti quasi tre metri, sulla destra, e vi appoggiò la mano sopra, si stupì di quanto freddo questo era, quasi ghiacciato. Avvicinò la sua fronte al vetro, per cercare di capire cosa potesse contenere, ma la densità di quel gel e la sua opacità rendevano difficile l’operazione. -Dev’essere un metodo di conservazione del cibo- pensò. La sostanza al suo interno parve schiarirsi, ed un brivido freddo gli percorse la schiena arrivandogli, come una morsa, fino alla nuca. Fu preso da una violenta nausea, ma cosa poteva vomitare, non aveva nemmeno un corpo con sé. Un corpo di maschio, umano, era immerso nudo nel cilindro, galleggiava. Avrà avuto meno di vent’anni. David non riusciva a capire se dormisse, o se fosse morto, nulla poteva dare qualche indizio, se non l'assunto che un corpo notoriamente non sopravvive in un liquido senza la possibilità di respirare. Quindi il ragazzo diresse la sua attenzione sul cilindro accanto, aspettandosi di vedere un analogo spettacolo. Ciò che si pose alla sua vista era però di tutt’altra natura. C’era sì un altro corpo, ma era tutto fuorché umano. Piccolo, non più di un metro, dalla testa e dagli occhi sproporzionati rispetto a quel corpicino esile. Da quanto fosse strano, qualcosa che non ci si aspetterebbe mai di vedere, lasciava in lui delle emozioni discordanti. Quasi non riusciva ad accettare che lì dentro vi fosse, o vi fosse stata, la vita. Ed un tipo di vita intelligente, per di più. Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire. Si sentiva come dovrebbe sentirsi un uomo preistorico, un Neanderthal, se dovesse malauguratamente farsi una passeggiata in un moderno centro commerciale. Sarebbe molto difficile immaginare la sua reazione, ma che sfiorerebbe il panico, quello è quasi certo.
David aspettava da un momento all’altro che quegli scherzi della natura gli saltassero addosso, sentiva del freddo sudore rigargli le guance, e deglutiva a fatica.
“Ma come è possibile? Io non ho un corpo, quello l’ho lasciato laggiù, nel mio appartamento. Questa è solo una proiezione, ma così realistica!”
Aveva ormai lasciato quella sala, immettendosi in una nuova, strana almeno quanto la precedente lì affianco. In questa erano disposti una cinquantina di letti, aveva tutta l’aria di essere una sala di ospedale. Su ogni letto giaceva un corpo in una sorta di ambiguo coma, avevano tutti gli occhi aperti. Aveva visto donne, uomini, bambini, vecchi. In quell’enorme stanzone vi era un buon assortimento di esseri umani, e sembravano campionati in base a razza ed età in maniera alquanto omogenea, aveva notato neri, occhi a mandorla, arabi ed occidentali. Nessuna etnia spiccava per numero su di un’altra, a prima vista almeno. Ciò che lo stupì però, era il vedere ognuno di loro collegato ad una sorta di apparecchio. Sulla testa di ogni persona era adagiato una sorta di caschetto ipertecnologico, con dei cavi sottilissimi che da questo andavano ad inserirsi su tutto il corpo. Ciò che lo aveva più turbato era però l’aver visto lo sguardo di quelle persone, dagli occhi sbarrati e che si muovevano in maniera frenetica, come se stessero osservando una qualche rappresentazione visiva. La sua attenzione venne attratta da una giovane donna distesa a pochi passi da lui, ricordò che uno dei suoi obbiettivi era quello di trovare informazioni e possibilmente un alleato, svegliare uno di loro sembrava in quel momento una buona idea. Sarebbe stato forse meglio rianimare un maschio adulto, avrebbe avuto certamente più aiuto sul lato fisico, ma si lasciò convincere dalla tenerezza che quella giovane ragazza gli suscitava. Dimostrava non più di sedici anni, avrebbe voluto proteggerla, portarla via da quell’incubo una volta per tutte. Stava cercando di capire come scollegarla da quell’apparecchiatura senza fare danni e senza richiamare l’attenzione di quei maledetti, ma aveva paura di poterle fare del male. Giusto dietro la nuca, quel marchingegno aveva quello che sembrava essere una specie di interruttore, e proprio quando si stava decidendo di azionarlo, sentì una fitta acutissima sulla spina dorsale, proprio al centro. Lo avevano preso. Non riusciva a muoversi, era immobilizzato da due di quei piccoletti che, nonostante l’altezza, riuscivano con facilità a fare ciò che volevano senza dover minimamente sfiorarlo. Mi hanno preso cazzo. Sarà il loro pensiero a bloccarmi, o qualche altra diavoleria tecnologica. Sono fottuto. Nella sua mente arrivarono potenti, e non senza qualche fastidioso dolore, le testuali parole:
«Come ti sei permesso di venire fin qui un’altra volta?»
David non rispose, non ci provò nemmeno, e lasciò che la loro volontà avesse effetto su di lui, sospingendolo con forza ed obbligandolo a camminare. Loro restarono qualche passo indietro, finirono in un corridoio molto basso, una sorta di galleria. David a quel punto era terrorizzato, tutto ciò che aveva sperato di fare con quella missione era miseramente fallito. Lo preoccupava inoltre la probabile capacità degli alieni di leggere il suo pensiero, quindi cercò con tutte le sue forze di concentrare la sua attenzione in un punto particolare del suo corpo, la mano, come aveva imparato durante le meditazioni, così non avrebbe permesso loro di sapere in anticipo come avrebbe voluto reagire.
Chiuse gli occhi per non farsi distrarre, così da non cadere in fallo permettendo a qualche pensiero sensibile di emergere, e seguì supinamente gli ordini a lui impartiti.
Fu così che arrivò in un nuovo ambiente di quella che ormai aveva capito essere una nave aliena.
Erano tredici, macrocefali ed apparentemente molto alti, forse più di due metri, disposti a semicerchio davanti a lui. Era stato immobilizzato su di una specie di tavolo metallico fuoriuscito dal pavimento. Ai suoi polsi, alle caviglie, stringevano con forza delle cinghie fatte di fili sottilissimi, dello spessore di capelli, che lo bloccavano supino sulla superficie dura e fredda di quel tavolo, sembravano di ottone. Aveva già visto nell’altro viaggio quegli stessi attrezzi che tenevano prigioniera quella donna senza volto, ora era lui nella stessa situazione. Ognuno di loro sedeva su quello che poteva sembrare un trono ipermoderno, percorso da infiniti sottilissimi filamenti che erano percorsi ad intermittenza da velocissime luci dal colore del fulmine. Posto al centro, in una posizione leggermente rialzata, stava l’essere che David aveva subito identificato come leader. Lui, a differenza degli altri che vestivano una tunica bianca, fino alle caviglie, aveva addosso una veste del tutto simile, ma viola. I loro occhi lo terrorizzavano, sembrava che ci potesse perdere la ragione dentro a quegli occhi, che freddi non distoglievano da lui lo sguardo. Ciò che emanava da quelle entità era distacco, superiorità, freddezza.
«Che cosa volete da me!? Ditemelo!» Legato come una bestia e fuori di sé, David tentava invano di liberarsi dalla morsa di quegli strani filamenti. All’unisono tredici voci entrarono prepotentemente nel suo cranio. Rimase annichilito, l’enorme forza mentale da loro sprigionata andava molto al di là di qualsiasi sua possibilità di resisterle.
«Taci uomo. Non hai diritto di sapere, non hai diritto di chiedere, tu sei una nostra creazione. Il nostro volere ha fatto sì che tu respirassi, che tu potessi esistere, tu ci appartieni. Dovresti dimostrare un po’ più gratitudine verso i tuoi creatori.»
«Questo è falso! Io non appartengo proprio a nessuno, lasciatemi andare!»
«Non sei nella posizione di poter avanzare delle richieste, essere inferiore. Tu farai quello che noi vogliamo, questo è l’unico motivo per il quale respiri.»
Quei tredici mostri stavano ad una manciata di metri da lui, le loro bocche, poco più di fessure, erano immobili. Aveva passato una settimana intera a studiare, a cercare di prevedere, per quanto possibile, ogni eventualità che riusciva ad immaginare. La loro potenza mentale era tale da stordirlo, ma non ne era del tutto sorpreso, lo aveva previsto. Tutti gli anni passati nel tempo libero a meditare gli avevano dato una padronanza che non era comune a livello del pensiero. Emise un flebile sospiro e chiuse gli occhi. Non pensò, non immaginò, e tutto ciò che lo muoveva in quel momento era racchiuso in una zona sotterranea di se stesso, giusto al di sotto della sua stessa consapevolezza, di poco fuori dalla portata del controllo degli alieni. Si fece vuoto, statico, ma quando venne a trovarsi all’apice, in quella condizione della mente che sfiora la caduta nell’incoscienza, ma che è in realtà l’espressione di una consapevolezza allargata, che si identifica con il tutto, riuscì a scardinare i sistemi di sicurezza di quella supermente che connetteva quegli esseri.
TAC
Le cinghie si aprirono di scatto lasciandolo libero, i tredici ebbero un sussulto, le bocche si aprirono come ad emettere un suono muto, ed i loro visi rivelarono sorpresa, paura addirittura. David balzò giù dal tavolo, con la luce di una bestia feroce nello sguardo che scorge uno spiraglio di libertà, c’era il diavolo in quegli occhi, e fu in un attimo col pugno serrato addosso all’individuo centrale, pronto a sentire il suo viso scricchiolargli sotto le nocche. Che quegli esseri provino emozioni non è dato saperlo, ma quella bocca ora aperta sembrava gridare di terrore. Sulla superficie levigata a specchio di quegli occhi David vide per un istante un riflesso, la forma di una donna che era certamente in quella sala. In quella che fu solo una frazione di secondo non volle accettare ciò che i suoi sensi sembravano suggerirgli, l’identità di quella donna. No, non poteva essere Iris. Non ebbe il tempo di farsi ghiacciare il sangue di paura da quella visione, non ne ebbe la possibilità, né gli fu data la soddisfazione di sfigurare il viso di quel mostro, perché il sipario venne calato giusto un attimo prima sulla sua consapevolezza. Così non fu più niente, e non fu più nemmeno l’oscurità.
«Lasciatemi stare! Non mi toccate, maledetti!» Le infermiere, per quanto impegno ci mettessero, non riuscivano a tenere fermo quell’uomo in preda ad una crisi violenta. Scalciava con una tale foga che una di loro venne colpita al naso e la piccola stanza del reparto di psichiatria del Molinette sembrava ormai un quadro di arte moderna, gli schizzi di sangue erano ovunque. In loro soccorso venne un energumeno di quasi due metri, un infermiere anche lui, accompagnato dal caposala, di media corporatura. I due ebbero la meglio su quel giovane che, nonostante fosse così esile, rivelava una forza sorprendente. Riuscirono, con l’aiuto delle colleghe, a trattenere il paziente e ad assicurarlo con le cinghie di contenzione in cuoio. Una potente dose di tranquillante gli venne iniettata nella coscia, che essendo contratta gli procurò ancora più dolore. Servirono solo pochi minuti al farmaco per fare effetto, dopodiché i dipendenti dell’ospedale mollarono la presa. L’individuo portato d’urgenza dal 118 era ormai sedato e si addormentò pesantemente.
Molte ore dopo, ormai a notte inoltrata, il paziente si risvegliò in un’altra camera, anche se non lo poteva sapere, non ricordava nemmeno di esser stato ricoverato. Un’infermiera arrivò poco dopo, richiamata dai suoi lamenti.
«Bene, il signor Mike Tyson si è risvegliato finalmente!»
«Signorina, dove mi trovo? E perché sono qui?»
«È all’ospedale Molinette di Torino. È stato portato qui da un’ambulanza della croce rossa. I suoi vicini di casa hanno chiamato i carabinieri perché stava dando in escandescenza nel suo appartamento, hanno sentito urla disumane e colpi e si sono preoccupati. Quando sono arrivati i carabinieri lei era fuori di sé e li ha attaccati, era preda di una crisi isterica, forse una psicosi, lo determinerà il dottore. Appena è arrivato qui ha fatto il diavolo a quattro, non riuscivamo a tenerla ferma e con una pedata ha pure rotto il naso di una mia collega. Abbiamo dovuto sedarla ed immobilizzarla a letto.» Nello stato confusionale in cui si trovava, non si era nemmeno accorto di esserle legato, ora però sentiva la stretta delle cinture di contenzione.
«Mio Dio, sta scherzando? Sono sconvolto. Ho rotto il naso ad un’infermiera? Mi dispiace, sono mortificato, io…»
«Non si preoccupi signor Pilastro, ora la collega sta bene, certo si è guadagnata un mese di ferie. Queste cose nel nostro lavoro possono succedere, e dopotutto, se una persona è malata non ne ha colpa.»
«Malata?»
«Diciamo che non era proprio nelle migliori condizioni. I carabinieri hanno trovato anche una pipa per fumare la droga, ma nel suo sangue non è stata trovata traccia di nessuna sostanza - l’infermiera non poteva sapere che il giovane aveva assunto dmt, sostanza non rilevata dai test antidroga - comunque stia tranquillo, non è stato accusato di nessun reato, hanno problemi più grossi per il momento i carabinieri, e lei non aveva praticamente nulla.»
David era sbiancato, sembrava un fantasma. Doveva ringraziare il cielo perché non avevano fatto alcuna perquisizione, né nessuna denuncia. Avrebbero trovato la ketamina, e dopo l’ospedale sarebbe dovuto andare in carcere.
«Ma per quanto dovrò restare qui? Posso parlare con un dottore?»
«Ora è impossibile, è notte fonda! Domattina parlerà con lo psichiatra e le chiarirà tutto.»
«Che cosa è quella roba che mi state iniettando nella flebo?»
«È solo della soluzione salina per non farla disidratare e del glucosio per darle un po’ di nutrimento. Le stiamo anche somministrando del Valium per farla stare tranquillo, per riposare.»
«Mi può slegare per favore?» I polsi gli dolevano davvero
«Non sarei autorizzata a farlo, ma se mi promette che sta tranquillo e che tiene a bada Mike Tyson posso fare un eccezione.»
«Promesso.» Dopo averlo slegato, David provò una bellissima sensazione di sollievo, ora che non aveva più una morsa che gli bloccava gli arti.
«Ora riposi, si rimetterà presto. Buonanotte.»
Fu quando l’infermiera lasciò la stanza che, rannicchiato su di un fianco, David ebbe fulmineo il ricordo della sua “missione” fallita. Il cuore batté all’impazzata arrivandogli fino in gola. Era solo, era spaventato.
-12-
L’odioso suono della sveglia la fece trasalire, era fradicia di sudore e fortemente agitata. Erano le sette, aveva davvero dormito così tanto?
Aveva la netta sensazione di aver appena vissuto qualcosa di eccezionale, ma a giudicare dalla sensazione di inquietudine che provava, non doveva essere stato nulla di positivo. Si alzò e corse in bagno, la vescica le stava scoppiando, e fu quando si sedette sul water potendosi finalmente liberare dalla terribile sensazione di avere un pugnale conficcato nel ventre, che un pensiero, o meglio, un immagine, vennero a scuotere dal torpore quella mente ancora offuscata dai fumi del sonno. Era lo sguardo di David, due occhi grandi che gridavano allo stesso tempo terrore puro e volontà di sopravvivere, e poi loro, quei mostri, ora li ricordava. Che incubo! Mi sono lasciata suggestionare da quello psicopatico, sono una cretina. Aveva però in sé una sorta di sensazione di essere in errore, nascosto dentro di lei covava il dubbio. Lo avrebbe chiamato, forse era lei quella pazza adesso, ma doveva sincerarsi della sua salute.
Quando David la vide entrare in quella sua nuova camera, il cuore gli si colmò di gioia e di malcelata soddisfazione. Alla fine lo aveva chiamato, aveva ceduto, non era poi così dura come voleva tanto far credere.
«David…ma cosa ti è successo? »
«Ciao anche a te, Iris. Dicono che ho dato di matto in casa mia, urlavo, tiravo cose, e mi hanno portato qui. Mi hanno riempito di farmaci.» Gli occhi della donna si gonfiarono di lacrime, la vista di quel ragazzo così dolce, che faceva di tutto per mostrarsi forte e sereno, nonostante il suo aspetto malmesso dicesse tutt’altro, era qualcosa di troppo forte anche per lei.
«Mi dispiace per quello che è successo, per come ti ho trattato. Avrei dovuto aiutarti. Ma tornerai a stare meglio, non è così?»
«I dottori dicono di sì, c’è una pastiglia per tutto sai?» Lei, tra le lacrime, accennò un sorriso, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto, poi lui continuò
«Io ti ho vista, so che c’eri anche tu.»
«A che cosa ti riferisci David?»
«Non fare finta di niente, tu eri là, là in quel luogo in cui nessuno crede, ma se tu eri in una mia allucinazione, e te lo ricordi, vuol dire che quella non era un’allucinazione.»
Gli occhi di Iris si aprirono un poco di più, ma restò in silenzio, quasi inespressiva, se non fosse per quel quasi impercettibile accenno di paura che lui riuscì a leggerle in viso. Gli occhi dicevano una cosa, ma purtroppo la bocca andò in tutt’altra direzione.
«Non so a che cosa ti riferisci, David, tu non stai bene, devi riposare. Ne riparleremo quando starai meglio.» A quel punto il ragazzo si alzò a sedere sul letto e le prese una mano.
«Tu resterai, vero? Resta. Per favore.»
«Resterò almeno fino a quando starai meglio, che sarai di nuovo forte.»
«Io lo so perché mi hai chiamato stamattina, e lo sai anche tu.»
«Ora devo andare David, potrai scrivermi, ti porterò tutto ciò che ti serve, ora riposa, devi rimetterti.» Si chinò su di lui per baciargli una guancia, lui si girò e le loro labbra si toccarono per pochi, lunghissimi, istanti. Si guardarono, ed erano i loro occhi a parlare, un idioma a parte, si dicevano ciò che le bocche non avevano il coraggio di dirsi, o non volevano, quelle restavano fedeli alla testa, gli occhi al cuore.
Lei se ne andò e David restò di nuovo solo, ma in fondo era quasi felice, fanculo gli alieni, pensò.
Le due settimane successive furono molto noiose, ma stabili. Non che ci fosse molto da fare, in un reparto psichiatrico, se non osservare dei poveretti perdersi nel filo di bava che gli scendeva dalla bocca, e sperar di non arrivare mai a tanto. Il dottore aveva parlato di “episodio psicotico”, lo aveva messo a regime con una bella quantità di pillole, antipsicotici e tranquillanti da tenere a bada una scuderia di cavalli.
«Se quando toglieremo i farmaci la psicosi ritorna, credo che potremmo diagnosticarti la schizofrenia, ma fino a quel momento, stai sereno!» Molto rasserenante il dottore.
Quei quattordici giorni erano trascorsi tiepidamente, non era stato in grado di leggere nulla, per quanto la libreria del reparto avesse dei titoli interessanti, non riusciva a superare le prime cinque righe che si addormentava, di sasso. «Purtroppo questa tipologia di farmaci ha questi effetti collaterali, ma vedrai che quando scaleremo potrai di nuovo leggere» gli aveva detto il dottore.
Le acque in quel periodo si erano in gran parte calmate, niente più incubi, niente episodi strani od incontri con esseri malevoli.
Se i farmaci funzionano e gli alieni non si ripresentano, allora significa che erano un prodotto della mia mente… Questo pensiero lo rasserenava, ma allo stesso tempo lo mortificava, nessuno poteva capire quanto si sentisse in imbarazzo nei confronti di Iris, dei dottori e degli infermieri, ma soprattutto dei vicini.
Che figura di merda, ora mi sono ben guadagnato il titolo di matto del quartiere. Devo andarmene da Torino, o come minimo cambiare zona.
Iris era passata a trovarlo quasi ogni giorno, dopo il lavoro. Che cara ragazza. Paradossalmente, quel periodo era stato quasi sereno per lui. Anche Iris era tranquilla, vedeva che ora che prendeva i farmaci David stava meglio. Certo, si addormentava ogni cinque minuti, ed una volta ha dovuto salvarlo dall’annegamento nella minestrina della cena, ma almeno non faceva più discorsi strani, di mostri o di alieni.
Quattordici giorni e venne dimesso, aveva giurato a se stesso che lì dentro non ci sarebbe più tornato. Aveva anche risentito sua madre, aveva deciso di venire a Torino qualche settimana per stargli vicino e poterlo aiutare, perlomeno in quei primi periodi, della serie “non tutti i mali vengono per nuocere”.
Per la prima volta dopo tanti anni era tornato spensierato, aveva la donna che desiderava al suo fianco, per quanto sentisse di avere come una coperta adagiata sul cuore, a tenere a distanza dal suo sentire qualsiasi sentimento potesse davvero coinvolgerlo, ed accanto a lui c’era ora sua madre, con cui stava finalmente costruendo un rapporto. Lo coccolavano, lo servivano come un bambino malato. In fondo quello era, convalescente. Dopo qualche giorno però tutta quella inoperosità stava cominciando a dargli sui nervi, aveva provato a riprendere a scrivere, ma niente. La sua mente non funzionava, non riusciva a mettere due parole in riga, niente che avesse un senso compiuto. Si metteva sui suoi taccuini, o più raramente sulla pagina bianca di un documento word, ma quando aveva il blocco dello scrittore il pc gli metteva ancora più ansia, e tentava di spremere quel po’ po’ di cervello che madre natura gli aveva fornito, ma niente. Dopo ben qualche minuto di tentativi continui, la luce si spegneva, e veniva poi svegliato di soprassalto dalla madre: «Tesoro, ti sei addormentato un’altra volta sul computer!»
La situazione lo seccava però non poco, a che cosa diavolo serve uno scrittore che non scrive? Né la madre né Iris seppero mai dare una risposta a tale domanda, tentavano però subito di rassicuralo, dicendo che non sarebbe stato così per sempre, che avrebbe tolto i farmaci un giorno, che doveva avere pazienza.
E se quando tolgo i farmaci torno psicotico, e devo prenderli per tutta la vita, poi che faccio? Non potrò più scrivere! Solo il pensiero lo terrorizzava.
Tra lui e la ragazza si stava ormai concretizzando quella che nessuno dei due aveva il coraggio di chiamare “relazione”. Non si erano mai fermati per un secondo a dirsi “noi siamo questo” o “noi siamo quello”, vivevano però i loro giorni insieme come un dono caduto da chissà dove, sereni, senza mai chiedersi da dove arrivasse, né si curavano di dove potesse portarli, non erano mai abbastanza audaci da guardare a un domani. Nonostante il cuore di David esplodesse dalla necessità di fermare nel tempo quella gioia inaspettata, non aveva davvero il coraggio di chiedere, non appena il discorso sembrava apparire all’orizzonte Iris compieva qualche gioco di prestigio, e l’occasione sfumava. Così anche la volontà. Lei non ci voleva davvero pensare, non ancora, aveva paura. Troppi forse, troppi ma, troppe variabili a rendere pericoloso un possibile percorso assieme, che a mirarlo da lontano già appariva sconnesso. Lo amava, sì è vero, ma non avrebbe dovuto saperlo nessuno, non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a quell’ingenua ragazza che la osservava da di là dello specchio ogni mattina, tanto le figure affettive della sua vita avevano sempre rappresentato una minaccia, piuttosto che una salvezza.
Iris si era fermata a dormire spesso da lui, la madre alloggiava in un resort non troppo lontano e aveva chiesto a lei di fermarsi qualche volta, per dargli un’occhiata. Sarebbe preferibile non entrare nei particolari, ma c’è da dire che che i ragazzi capirono presto che i farmaci non solo non sono amici della scrittura, ma nemmeno della sessualità. Non è difficile immaginare quanto questo pesasse come un macigno in fondo all’anima di David. Iris ebbe tatto, diplomazia, maturità, e cercò di alleggerire la cosa, di metterla in prospettiva, di mitigare la situazione, ma se non funziona non funziona, e solo un uomo può capire quanto questo sia umiliante. La drammatica situazione nella sfera intima, unita all’incapacità di mettere a frutto il suo più grande talento, la scrittura, più l’incapacità di leggere alcunché ed il non riuscire a restare sveglio per più di venti, fecero maturare in lui una drastica quanto comprensibile decisione: sospendere i farmaci, così, di netto, e senza parlarne con nessuno, nemmeno con i suoi due angeli.
Nel giro di qualche giorno David sentì le forze tornare al proprio posto, in qualunque posto fossero esse venute a mancare, avrebbe certamente sottolineato lui, non passarono molte notti prima che anche Iris potesse accorgersene.
«Gli effetti collaterali degli psicofarmaci sembrano essere spariti.» Gli disse una mattina con una punta di malizia nello sguardo.
«Sembrerebbe di sì, devo essermi abituato!»
Nuovamente le sue dita ricominciarono a tamburellare frenetiche sulla tastiera, a cercare di stare dietro a quella rinnovata emozione che gli traboccava finalmente dal cuore. Non vedeva nemmeno più le parole sullo schermo, l’unica cosa su cui riusciva davvero a concentrare la sua attenzione erano le atmosfere che connotavano il suo animo, le sensazioni ed i turbamenti che quei mesi avevano marchiato a fuoco nel suo sentire, e scriveva e scriveva quasi posseduto, concitatamente, e pagine e pagine della sua vita presunta venivano fermate nel tempo, che restassero lì, che non venissero mai spazzate via dall’amnesia o dalla droga, o dall’oblio a cui i farmaci e gli ospedali psichiatrici condannano, perché per quanto assurdi, irrazionali o pazzeschi, questo era il suo vissuto, anche se fosse stata tutta un’allucinazione, come ormai si era rassegnato a credere. Quello sì che sarebbe diventato un gran libro! Sospendere i farmaci gli era sembrata la decisione più azzeccata di tutta la sua vita. Avrebbe questa comportato un’enorme, quanto dovuta, responsabilità, ma al tempo lui di ciò non ne poteva sapere niente.
Un pomeriggio gli effetti della veloce sospensione degli antipsicotici tornarono a galla, con tutta la loro distruttiva potenza. Lui sul divano, con lo sguardo assorto tra le righe di Festa mobile di Hemingway, un libro che amava, ed al centro del soggiorno stava sua madre seduta su una seggiola, con Iris che con la pinzetta le sistemava diligentemente le sopracciglia, quando una luce bianca, fortissima, investì l’intero appartamento. David fece cadere il libro, si guardarono l’un l’altro smarriti, ma l’uomo sapeva bene cosa stesse per accadere. Sulla parete vuota, priva di quadri o di alcunché, una linea di luce disegnò la sagoma di una porta. Concluso di tracciare il rettangolo, l’interno si illuminò di un bagliore che superava di molte volte quello di potenti fari alogeni. Due ombre scure si fecero avanti da quella che era a tutti gli effetti una porta. Erano tornati. David, preso da un coraggio che solo il terrore può donare, volle balzargli contro per tramortirli con una serie veloce di pugni, per non dargli il tempo di reagire, come aveva imparato fin da ragazzino nelle risse di strada, ma si trovò impotente, completamente paralizzato, inerme. Volse lo sguardo preoccupato verso le due donne, il cui stato era forse più inquietante degli alieni stessi. La bocca semichiusa ed il mento rialzato, con gli occhi completamente rovesciati all’indietro che lasciavano intravedere solamente il bianco. Avrebbe voluto urlare, scalciare, colpire, mordere, tirare testate, e la sua anima cercava invano di ribellarsi a quello stato di paralisi che non gli lasciava nemmeno un millimetro di mobilità. Loro stavano arrivando, lo avrebbero preso. Mesi dopo ripensando all’accaduto avrebbe dovuto ammettere a se stesso, con vergogna, che nonostante l'incolumità di Iris e sua madre fosse messa a rischio, se solo avesse potuto optare per una morte istantanea per sottrarsi a quella minaccia, beh, non ci avrebbe pensato due volte a porre fine alla sua vita, così, sul momento.
Le due ombre arrivarono a lui, nonostante la poca altezza rivelarono una forza inaspettata, e lo afferrarono con quelle mani viscide da quattro dita ognuna. Lo presero dai polsi e dalle braccia, trascinandolo con violenza e con distacco, quasi fosse un mucchio di misera carne. Nemmeno urlare poteva, e nemmeno imprecare contro quei bastardi tanto codardi da non aver il coraggio di battersi, alla pari. L’ultima immagine che vide prima di oltrepassare la soglia di quella porta misteriosa, fu quella delle due donne della sua vita. Avrebbe voluto cancellare quel ricordo per tutto il resto dei suoi giorni, perché una parte di lui, quando si apprestava a baciare una di esse, rivedeva l’immagine di quei due gusci orripilanti e senza vita, come gli apparirono in quell’episodio, ed una forte nausea gli serrava lo stomaco. Necessitò di molto tempo prima di abituarcisi e superare quel trauma. Superata la soglia, per qualche istante, fu abbagliato dalla luce. Dopo di che, dietro ai suoi occhi, non vi non fu più alcuno spettatore ad osservare la scena, che rimase un enigma per molto tempo ancora.
«Hey, dormiglione! È molto interessante vedo, il tuo Hemingway. Guarda, le ho fatte bene le sopracciglia di tua mamma?»
David si sentì riemergere da un nulla profondo, i cui fumi a fatica liberavano la sua mente, non capiva bene che cosa fosse successo, e si guardò attorno spaesato e scosso.
«Allora, non mi dici niente? Hai dormito solo cinque minuti, non sei stato via settimane!»
«Ehm, sì, certo. Mamma sta benissimo, sei stata brava Iris.»
«Ma se non mi hai neanche guardata!» Intervenne la madre. Tentò in qualche modo di giustificarsi, balbettando qualche scorcio di frase in realtà senza molto senso logico. Le donne erano ormai abituate a certe scene, e convinte che David fosse ancora in terapia con i farmaci, non se ne curarono molto.
Non servì che qualche minuto perché la consapevolezza di ciò che era appena successo tornò con tutta la sua violenza, e con lo strazio che portò con sé. La psicosi, beffarda, era tornata. Non ci poteva credere, era pazzo! Fu però quando tentò di sistemarsi su quel divano, con la schiena dolorante e tutto indolenzito, che notò sotto la manica sinistra un segno viola. Si alzò con indifferenza dirigendosi al bagno, ed una volta dentro si tolse la felpa , davanti allo specchio. Bastò un istante al suo viso per divenire bianco come il latte. Il suo corpo, il busto, ma soprattutto braccia e polsi erano letteralmente ricoperti di lividi violacei e bluastri. Allora era vero, era tutto vero.
Sembrò che il cuore gli si fosse installato al centro della gola, tanto era terrorizzato. Doveva ammettere a se stesso che ciò che aveva finalmente compreso, lo spaventava ancor di più che la prospettiva di una vita da malato di mente, molto di più. Questa volta non dirò nulla, nemmeno ad Iris. Ho promesso, in psichiatria io non ci torno più!
Purtroppo le forze che erano in campo a cercar di sabotare i suoi piani e le sue intenzioni andavano ben al di là delle sue capacità. Pur essendone in fondo consapevole, volle pensar di avere sempre una qualche possibilità per riuscire a vincerli, per sopraffarli. Si dovrà pur credere in qualche illusione per poter andare avanti!
-13-
Erano mesi oramai che non sentiva più Michael, il suo amico, il suo unico amico. Lui non aveva niente che non andasse, era leale, era sincero, c’era però un piccolo problema: Michael utilizzava montagne di droga, e con tutto il macello della vita di David, tra vita reale e presunta, non poteva certo permettersi di mettere altra carne al fuoco a mischiare ancor più le carte. Lo aveva pensato più volte, e più volte fu sul punto di chiamarlo, ma ogni volta che succedeva, anche la voglia di stendersi un’autostrada di ketamina diveniva, come dire, preponderante. Non che dovesse fare chissà quanti chilometri, ne aveva a casa una buona quantità a prendere polvere; dacché la psicosi, o qualunque cosa fosse, era sopraggiunta, non si era più nemmeno azzardato a guardarla.
Aveva sentito la necessità di chiamarlo, di parlargli e chiarire che lui non aveva fatto proprio niente, semmai era il suo stesso cervello che dava i numeri. Sentiva il bisogno di avere un amico vicino in quei momenti, e se ne sbatteva del fatto che avrebbe potuto prenderlo per pazzo. Se c’era una persona al mondo che poteva in qualche modo comprendere gli scherzi che gioca la mente, beh quello era Michael. Qualcuno che utilizza allucinogeni da molto tempo deve essere preparato a questo, che sia il delirio dovuto alla droga oppure un mondo distorto da una psicosi, è sempre qualcosa di diverso dalla realtà di consenso, ed è sempre possibile trovare dei parallelismi.
Al telefono non si erano detti granché, Michael era freddo, comprensibilmente. Aveva risposto che sarebbe passato entro qualche ora, e sarebbe stato l’ideale, considerato che David era solo a casa per tutto il giorno e non ci sarebbe stato nessuno tra i piedi.
Il campanello suonò, David corse ad aprire e davanti a lui, ritto come un chiodo, stava Michael, con l’espressione di uno che non si sta divertendo per niente.
«Michael! Dai, entra, sono contento di rivederti.» Il suo amico abbozzò un sorriso, ed accettò l’invito, sedendosi poi sul divano. Era diverso da come l’aveva lasciato, non sembrava più così emaciato, come se fosse sempre sul punto di aver bisogno di una trasfusione. David se ne rallegrava, deve averci dato un freno con le storie.
«Mike, so che sei incazzato nero perché sono sparito nel nulla e non ho più risposto alle tue telefonate…»
«Sì, infatti, è così. Che cazzo ti è preso? Ti ho forse fatto qualcosa io? Siamo amici da anni, che chiudessi così non me la sarei mai aspettata, senza neanche un cazzo di messaggio.»
«Beh, sì, hai ragione. Io di mio lo avrei fatto, lo sai, ma in questi mesi… non ero proprio me stesso, ecco.»
«Ma cosa stai dicendo? A meno che non sei stato in coma per tutto questo tempo non vedo molte giustificazioni al tuo comportamento.»
«In effetti di giustificazioni non ce ne sono, semmai “spiegazioni”.»
«Dai, sentiamo.»
«Te l’ho detto, gli ultimi mesi ho avuto dei seri problemi. Non so se siano state le droghe o che altro, anzi, a dirla tutta non ho ancora capito bene che cazzo di problemi siano, ma sono andato un po’ fuori di testa, diciamo.»
«Fuori di testa?»
«Sì, sono finito in psichiatria.»
«Cosa? Stai scherzando? E adesso come stai? Ti sei ripreso? Ma che hai fatto, mica hai tentato di fare qualche stronzata spero.»
«No, nessuna stronzata, ci tengo alla pellaccia. Ricordi quando ti avevo raccontato, il giorno che siamo andati a prendere la ketamina e la dmt, che avevo avuto quella strana esperienza, e mi ero trovato al risveglio tutto imbrattato di quella strana sostanza gialla?»
«Certo che ricordo. Dopo che mi hai detto ‘sta cosa avevo fatto qualche ricerca su internet e non ti dico che cosa mi è uscito. Ci sono rimasto di merda, parlavano di alieni, di rapimenti, cose da barricarsi in casa armati David!» Non riusciva a crederci, Michael aveva fatto una ricerca ed era arrivato alle sue stesse conclusioni. Si sentiva una merda per non essersi fidato del suo amico, per averlo evitato ed per essersi tenuto tutto dentro. Lo avrebbe potuto aiutare!
«Non sai che gioia per me sentirti dire queste parole!»
«Gioia? Ma allora sei matto davvero, capisco perché ti hanno rinchiuso. Cos’è, sei felice che ti sono venuti a far visita gli alieni?»
«No, scemo. Sono felice che te ne posso parlare apertamente, perché sei l’unica persona al mondo con cui lo posso fare. Non puoi neanche immaginare che cosa ho passato io in questi mesi per colpa di quelli.»
«E allora racconta. Lo sai che con me puoi dire di tutto. Siamo amici da una vita.»
E fu così che gli raccontò tutto. Dalla prima fumata di dmt, alle altre esperienze dove vide quei luoghi, e soprattutto, quei mostri che tentò di combattere, salvo poi risvegliandosi in un letto di ospedale legato come una bestia. Disse delle cicatrici, delle amnesie, confessò ogni cosa. Più ne parlava più si rendeva conto di quanto folle tutto ciò poteva sembrare, ma tutto pareva seguire strettamente un filo logico, e lo sguardo a tratti interessato e ad altri inorridito di Michael sembrava confermarlo. Mentre sviscerava gli eventi, le impressioni e le illusioni che continuavano a confonderlo, il ragazzo capì che era ora di fare qualcosa, e la presenza del suo amico era a dir poco provvidenziale. D’un tratto l’idea di ciò che era da farsi, come fosse caduta dall’alto, arrivò alla mente di David, chiara e limpida: avrebbe dovuto riprenderli. Questo lo avrebbe salvato dalla malattia mentale, questo avrebbe salvato la sua reputazione e la sua vita, per quanto quelli avrebbero potuto certo eliminarlo con un solo schiocco di quelle loro orripilanti dita.
«Mike, ho bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo registrarli, dobbiamo riprenderli!»
«Vorresti installare delle telecamere qui in casa tua?»
«Hai afferrato il concetto. Questo mi aiuterà, fosse anche solo a capire che non sono completamente pazzo, e credimi, sarebbe già un grande obiettivo.»
«È una buona idea, ma costano le telecamere. Poi dovresti chiamare qualcuno ad installarle.»
«Certo. Non sarà poi una grande spesa, casa mia è un buco, in un bilocale due telecamere bastano e avanzano. Ok, spenderò dei soldi, ma questo è importante. Avrei potuto utilizzare la webcam del pc, ma è troppo prevedibile. Se lo aspetterebbero, e se poi si portano via il Mac con cosa diavolo scrivo? Perderei tutto.»
«Stai dicendo che tutti i tuoi lavori sono solo nel tuo computer? Ma sei pazzo? E se te lo rubano, che fai?»
«Sta tranquillo, sì che sono pazzo, ma non in quel frangente. Ho un hard disk esterno. E poi anche ad Hemingway avevano rubato tutti i suoi lavori da giovane.»
«Ancora rompi i coglioni con questo Hemingway? Sei monotematico!»
Avevano non poco penato, non è da tutti i giorni andare a comprare delle microcamere, ma non avevano demorso e alla fine le avevano trovate, al centro commerciale al lingotto, se ne erano portati a casa un paio per poco più di cento euro.
«Occhio che se te la fai beccare dalla tua tipa, poi pensa che vuoi fare i filmini di nascosto per metterli sul web»
«Ma va, dici?»
«Ma a che cacchio ti serve una telecamera segreta? Per vedere che cosa fai da sonnambulo?» Scoppiarono entrambi a ridere, sembravano così allegri, spensierati come una volta, chi mai avrebbe potuto immaginare, guardandoli, che invece stavano organizzando una strategia di difesa da una delle minacce più terrificanti che mente umana possa concepire. Assieme tornavano dei ragazzini e, caso eccezionale, non avevano parlato di droga. Michael stava cercando di darsi un freno, una “ripulita”, la aveva definita lui.
Installarono quegli affari, che erano grandi come una scatola di fiammiferi, una in mezzo ai libri sulla libreria, e l’altra in camera tra i profumi e deodoranti che teneva sul comò. Michael aveva la stessa luce negli occhi di quella che si può vedere nello sguardo di un ragazzino che gioca con il suo regalo di Natale appena scartato. Eppure aveva quasi trent’anni. David non se ne curava, troppo impegnato a cercare di capire se fossero o meno invisibili alla vista, o perlomeno ben nascoste.
«David, questa tecnologia è una figata! Guarda, le colleghi allo smartphone e puoi sapere in tempo reale che cosa fa la tua tipa mentre sei al lavoro!»
«Certo, ma perché spendere cento euro, a ‘sto punto la lego al termosifone quando esco e la libero quando torno… sei proprio scemo te!»
«Ma dai, era per dire!»
«Comunque, ti volevo ringraziare.»
«E per cosa?»
«Per essere qui oggi, ad esempio. Per l’aiuto che mi dai, perché non te la sei presa, e soprattutto perché mi credi.»
«Te l’ho detto, siamo amici. Ma ti dico subito che se ciò che raccontassi non mi tornasse, te lo direi al volo che sei fuori di testa. Non mi faccio problemi io. Ma anche in quel caso… io ci sarei per te.» David smise di dar attenzione alla postazione della telecamera sulla libreria ed abbracciò l’amico, ringraziandolo nuovamente.
Dio solo sa quanto quel pomeriggio aveva fatto bene ad entrambi, ma soprattutto a lui, che negli ultimi tempi non aveva visto che sua madre o Iris. Finalmente, perché la presenza della madre non era proprio piacevolissima, lei era tornata in Trentino. Ora erano rimasti solo loro due, a prender le misure di una storia vera, per vedere se era fattibile. Certo Iris aveva il fratello, ma lui era stufo di vederla andare e tornare. Stava pensando, magari più in là, di proporle di vivere assieme, tutti assieme, anche Alex. E perché no? Comunque era ancora troppo presto per quei ragionamenti, le cose serie vanno fatte con calma.
Ora doveva solo aspettare che gli “omini verdi”, che verdi non erano, si ripresentassero, ma per qualche tempo sembrò esserci una curiosa e piatta calma. Continuò così il suo libro, e ci si immerse con ogni cellula del suo corpo. Questa sì che era un’attività terapeutica, altro che gli psicofarmaci. Giunse a parlare di Edoardo, il caro vecchio professore, che se si trovava in quel momento vivo con le mani su una tastiera lo doveva solamente a lui, sentì stringersi il cuore. Si chiese che cosa avrebbe fatto lui, una persona così razionale, in una situazione come quella in cui si trovava lui ora. Si sentiva perso. Certo, ora c’era di nuovo Mike, e per fortuna, ma non gli dava certo quel senso di sicurezza che invece il professore sapeva infondergli. Semmai poteva aiutarlo con la logistica, ma la mente tra i due era sempre stato lui. Cosa non avrebbe dato per poter chiedere consiglio al prof, anche se, a dirla tutta, probabilmente pure lui lo avrebbe preso per pazzo. Si sentì solo, profondamente solo. Quando Iris tornò, si accorse del suo umore malinconico e tentò invano di sondarne i motivi. Lui era una fortezza, se lo era promesso, non più una parola sugli alieni, doveva lasciar supporre che anche lui credeva di aver avuto solamente una psicosi.
«Amore, che cos’hai? Perché non mi dici niente?»
«Non ti dico niente perché non c’è nulla da dire. Sono un po’ giù, non c’è una ragione, capita a volte.»
«Hai qualche dubbio su di noi?»
«No, non li ho di certo. Forse sei tu quella che ha dei dubbi.»
«Io non ho dubbi David. Io ho paure.»
«Hai paura che io sia un pazzo furioso e che dovrai fare da infermiera tutta la vita, questo è.»
«Vedi amó, non ti conosco da molto tempo, ma è così, mi sono innamorata. Il fatto è che ora sei così, ed è di questo David che ho perso la testa, ma purtroppo ti ho visto trasformarti in altre occasioni. Lo sguardo che avevi… quello mi fa paura.»
«Sì, lo capisco. È vero, ho avuto questa psicosi, ma sai può esser stata scatenata dalla droga. E poi, anche se non fosse così, nel caso fossi malato di quella malattia che non voglio neanche nominare, potrei continuare coi farmaci e vivere una vita normale. Sai quanti lo fanno. Oggi si prendono farmaci per qualsiasi cosa. Pensa, è come se fossi diabetico e dipendessi dall’insulina. Amore mio, ti giuro sulla mia stessa vita che farò di tutto per essere una persona lucida, per stare al tuo fianco veramente, con tutte le mie forze, e non come uno zombie sedato o come uno psicopatico. Te lo giuro.» Lei lo strinse forte, poi lo baciò.
«Ti amo brutto psicopatico.»
«Anche io esaurita. Ricorda che ti ho conosciuta da una psichiatra, e non eri certo la tipa delle pulizie.»
«Sì ok è vero, ma ora sto bene, sono serena, ho te. Era l’amore che mi mancava, avere qualcuno vicino che mi amasse per quel che sono e che mi sostenesse.»
«Ora l’hai trovato, goccia di luce.»
Quella notte fecero l’amore, vissero assieme qualcosa che nulla ha a che vedere col sesso o con tutte le varianti più volgari di questa fredda parola. I loro corpi erano solo un’opportunità quella notte, l’opportunità perché due anime si toccassero. Furono attimi in cui si persero entro se stessi, ma non furono mai realmente smarriti. Sì, c’era certamente qualcosa di sensuale in tutto ciò, ma quello era solo il principio di un’esperienza che li coinvolse su ogni livello dell’universo umano. Furono uno. Furono tutto. Ormai era fatta, sarebbero rimasti marchiati sul cuore l’uno dell’altra, anche se quella fosse stata l’ultima notte insieme della loro vita. Si addormentarono poi uno accanto all’altra. I corpi a qualche centimetro di distanza, ma coi piedi che si sfioravano. In retrospettiva, David avrebbe poi identificato quello come un momento culmine della sua vita. Fu lì che iniziò a pieno il capitolo della loro storia, ma fu anche il preludio di una delle più angosciose esperienze di tutta la sua esistenza.
L’appartamento era vuoto, avvertiva però il vociare di Iris nel bagno che parlava al telefono. Una strana luce inondava tutto quanto, rendendo l’atmosfera inquietante, grottesca. Lui era seduto alla scrivania, lo sguardo fisso al computer e con il corpo come dotato di una propria volontà, proteso con ogni suo atomo verso lo schermo, come se quell’operazione avesse un qualcosa di essenziale, di fondamentale.
Il pc proiettava le immagini di quella che sembrava una telecamera di sorveglianza, che riprendeva dall’esterno una villetta indipendente con garage. Era tutto in bianco e nero, ma la scena si svolgeva chiaramente di notte. Si scorgeva dietro una finestra, illuminata dalla luce degli interni, una giovane coppia litigare molto più che animatamente, addirittura forsennatamente. L’uomo, delirante, estrasse una pistola di grosso calibro e se la puntò proprio sotto il mento. La donna si animava istericamente in preda al panico, ed in qualche secondo furono visibili dalla telecamera una decina di piccole ombre che sopraggiunsero veloci e furtive dal cortile, entrando con facilità dal garage. In quel momento lo sguardo dell’uomo, che fino poco prima mostrava primariamente i segni di una rabbia impetuosa, cambiò istantaneamente espressione e rivelò puro terrore. La donna sembrò immediatamente prendere coscienza di una qualche agghiacciante quanto inesorabile verità. Nel giro di qualche frazione di secondo l’uomo distolse la canna della pistola cromata da se stesso e la puntò in viso alla compagna, premendo subitaneamente il grilletto. Il viso di quella povera donna fu sfigurato all’istante.
David saltò dalla sedia dal terrore, cominciò a gridare il nome di Iris e a chiamarla forsennatamente. Iris, cazzo vieni qui!
Era in quel momento preda del terrore più nero, non solamente perché aveva assistito all’omicidio di una ragazza, così, in diretta - una visione a dir poco traumatizzante - ma soprattutto perché sapeva che loro sapevano che lui ne era stato testimone, e sarebbero venuti a zittirlo per sempre.
Dovette chiamarla più di un paio di volte, Iris ti prego! Vieni qui santo Dio!
Quando finalmente Iris giunse in soggiorno, anche lei era completamente fuori di sé, ma dalla rabbia.
«Che cosa cazzo vuoi! - gridò violentemente - Tutte le volte che sono al telefono mi devi rompere i coglioni! Non ti sopporto più brutto psicopatico!» Gridò queste amare frasi tutte sul muso di David, subissandolo di cattiveria, al che il ragazzo fu preso da qualcosa di più grande della sola rabbia. Era ira certo, un’ira cieca, ma c’era qualcos’altro lì in mezzo, qualcosa di estraneo, di esterno. Fu una dissociazione della mente dal corpo, un’interruzione delle connessioni che rendevano il cuore ed il cervello due apparati al servizio di un solo fine. Qualcuno vi si intromise da fuori, sabotandoli. Fu così che il suo stesso corpo agì senza nessuna censura o controllo da parte sua, nessuna, e le mise le mani al collo, e queste stringevano impazzite con una forza che nemmeno lui sospettava di avere. Così la ucciderò! Fermati David, ferma queste cazzo di mani, la ammazzerai!
Furono all’incirca una quindicina o poco più i secondi nei quali la gola di Iris fu stretta tra la morsa impazzita di quelle mani che non rispondevano a nessun comando. Sembrava che quegli occhi avrebbero potuto schizzare all’improvviso fuori dalle orbite che li avevano ospitati per così lungo tempo. Non posso permetterlo. No. No. No. No!
Utilizzò ogni millimetro del suo essere per opporsi a quel comando impersonale e lontano, fece ricorso a qualsiasi briciolo di volontà per reclamare la proprietà dei suoi muscoli, e finalmente, dopo quello che gli sembrò uno sforzo titanico, ebbe la meglio. Le ossa delle dita scattarono come un meccanismo difettoso e male oleato, su cui gli sforzi di un tecnico hanno potuto finalmente aver ragione. Il viso della donna era ormai bordò, e tale rimase anche quando poté respirare. Bordò rimase, bordò di rabbia, bordò di follia. Cominciò a dimenarsi e a scalciare furiosa. A niente servirono i suoi tentativi per cercare di spiegarle l’incomprensibile, ovvero che lui non era stato, erano sì sue quelle due mani, ma qualcuno ne aveva preso il controllo, aveva soggiogato la sua volontà e così il suo corpo. Fu tutto inutile, e lei come un’invasata iniziò a mordere, tirare pugni e calci, urla disumane come una bestia in trappola. Il ragazzo tentò di fermarla, era pericolosa anche per se stessa, ma lei si dimenava e cercava di liberarsi da David che, nel frattempo, mise tutto il suo impegno per bloccarla. La spinse sul divano e tentò di fermarla con l’intero suo corpo, stringendola con le braccia per immobilizzarla, almeno fino a quando avrebbe ripreso il controllo e avrebbe capito che la minaccia era sparita.
Fu come un lampo nella sua consapevolezza che lo freddò. Un brivido gli percorse tutta la spina dorsale, che partì dal bacino fino a prenderlo, come una morsa di acciaio ghiacciato, alla nuca. Stavano arrivando, ora lo sapeva. Sentì il tamburellìo dei loro passi rapidi e ristretti essergli quasi addosso, aveva paura, era preso dal panico più totale, tanto che per un istante volle quasi arrendersi implorando per aver salva la vita. Ma era Iris quella che aveva sotto di lui, la donna che amava e che avrebbe protetto a costo della vita, quindi, proprio quando loro furono su di lui alle sue spalle, David ringhiando di rabbia furiosa e voglia di vivere ed odio per quei bastardi ed amore per la sua donna resistette, esplodendo con tutte la sue forze per liberarsi dalla presa che, non poteva sapere se mentale o fisica, non potendo vedere dietro di sé, tentava di sottometterlo.
Un ago, una lancia, una scossa, l’omicidio della propria madre sotto ai propri occhi, lo stupro di gruppo della propria donna mentre si osserva impotenti, l’agonia di un’eternità di pena ed il lampo di uno spasimo accecante di un’istante di pura follia, fu di tutto questo che venne inondato quell’unico corpo e molto di più. Le parole non possono che amputare il significato di quel che gli fecero in un solo istante di odio per la vita. Demorse, gettò la spugna, rimise l’anima a Dio o a chi cazzo gliel’aveva messa tra le mani, rispedì bestemmiando al mittente tutto il pacco di un’esistenza che sa essere tanto amara, e si ritirò sconfitto. Avevano vinto loro. Negli occhi chiusi dal dolore non volle più sapere nulla, rifugiandosi in se stesso si ritirò dai sensi, fu l’unica cosa che gli riuscì di fare per tentar di dargli un po’ sollievo. Quando aprì gli occhi era nel suo letto, con la donna che amava pesantemente addormentata accanto a lui. Madido di sudore e tremante, la pelle gli andava a fuoco come fosse stata cosparsa di soda caustica. Una violenta reazione allergica gli tormentava la pelle. No, vi prego, questo è davvero troppo, troppo!
Il secondo pensiero che gli giunse in mente fu quello di dover tornare a prendere gli antipsicotici. Era completamente frastornato da ciò che aveva vissuto e confuso come se avesse dormito quindici ore filate. Guardò l’orologio, era passata poco più di un’ora e mezzo da quando si erano addormentati. La pelle gli ribolliva, tanto che pensò di cercare nel cassetto dei medicinali se ci fossero degli antistaminici. Riuscì poi ad identificare come esterno allo stordimento della sua mente un rumore grave e costante, una bassa e fastidiosa vibrazione che sembrava pervadere ogni cosa. Ebbe per qualche momento il dubbio che questa fosse solo nella sua testa, ma appena si accorse che così non era si alzò ed andò alla finestra. Scorse la tenda, e sul vetro vi era riflessa la luce della abat-jour che rendeva difficile poter vedere all’esterno. Ebbe bisogno di qualche istante per mettere a fuoco gradualmente quella che sembrava una massa scura indistinta, proprio di fronte alla sua finestra, che stava al terzo piano, giusto sopra la palazzina di fronte. A meno di venti metri da lui in linea retta stava fermo in cielo uno di quegli oggetti neri! Un enorme triangolo di metallo scuro con tre leggere luci che non emanavano luminosità nei dintorni, proprio davanti ai suoi occhi fisici, e lui era sveglio! Allora l’altra volta vicino alla stazione non era un’allucinazione! Fece un balzo all’indietro e tornò tremante a letto, ed Iris si svegliò di soprassalto per lo scossone del materasso sotto il corpo del suo ragazzo, che ora stava rannicchiato con le ginocchia tra le braccia dondolando in maniera inquietante.
«Amore mio, che succede? Hai avuto solo un brutto incubo, sono qui con te, è passato ora.» Nella testa di lui scorrevano frenetici mille pensieri, lo stavano venendo a prendere? Doveva prendere Iris e scappare? Ma dove? Lo avrebbero trovato sempre. Una parola fu in grado di uscire da quella labbra tremanti, sottovoce:
«Il rumore»
«Dici questo baccano che si sente? Sarà un ripetitore del telefono guasto, o qualche macchinario nei paraggi. Non ti preoccupare.» Lui sapeva benissimo che non era nessun macchinario nei paraggi, niente di umano perlomeno. Iris non lo disse, ma lei stessa provava una strana inquietudine nell’udire quello strano suono disarmonico, tant’è che le si strinse la bocca della stomaco e le venne un fastidioso mal di testa. Aveva brividi di freddo per tutto il corpo, e le estremità ghiacciate, non era sicura però fosse a causa di questo. Preferì tenersi per se le sue inquietudini, per non spaventare ulteriormente il fidanzato, già fin troppo scosso per un semplice incubo. Ad un tratto lo vide sbarrare gli occhi in modo del tutto innaturale. Una voce profonda e gutturale parlo nella testa di David, riecheggiando varie volte dentro di lui, torturandolo: “Perderai ciò che di più caro hai al mondo se non la smetti di scrivere di cose che non ti riguardano e non terrai la bocca chiusa. Stai attento, o dovrai dire addio alla tua Iris. Il mondo penserà che sia colpa tua e sarai visto come un mostro, misera nullità”.
«Amore, che cos’hai? Rispondimi, David!»
«Niente. Ho avuto una fitta lancinante. È solo mal di testa.»
-14-
Ora aveva paura. Davvero paura. Il messaggio era stato chiaro, gli avevano mostrato in sogno come avrebbero utilizzato con facilità il suo stesso corpo. Avevano esplicitamente palesato le loro intenzioni, e la vittima sacrificale di questo malato gioco sarebbe stata Iris. Vittima delle sue stesse mani, le mani di chi la ama più al mondo. Questo rendeva le cose assai più difficili, ora aveva paura a starle accanto, a dormire assieme, era terrorizzato all’idea che qualcuno potesse prendere il controllo del suo corpo, spezzando la vita per lui più preziosa.
Doveva rimettersi alla loro volontà, così, supinamente? Doveva permettere a quei mostri di manipolare a piacere le persone, con metodi da cosca mafiosa, per fare i loro porci comodi? Di cosa avevano paura? Che la gente sapesse? Ma la gente già sa, il problema è che pensa che tutto questo sia da relegare alla fantascienza, o come era successo a lui, alla malattia mentale. Doveva esserci un altro modo, non poteva mollare così. Non era solo per lui, sentiva di non aver troppe speranze, ma per tutti. Che cosa vogliono da noi? Ci prendono lo sperma, il dna, per fare i loro stupidi giochi a fingersi dèi, creando forse mostri o forse rubando. Rubando le nostre ricchezze biologiche, le nostre energie o chissà che altro. E da quanto andava avanti questa storia? Forse da sempre. Forse, fin da quando esiste l’uomo.
Sapeva che era controllato, in ogni momento, in ogni luogo fosse. Decise di lasciar perdere la penna, almeno per il momento. Pensò però che avrebbe potuto coinvolgere una persona esterna, magari con una certa rispettabilità sociale e clinicamente competente. In qualche modo doveva trasmettere l’informazione, e se non poteva scrivere, e parlando apertamente con qualcuno non sarebbe stato creduto, ma poteva esserci un’altra via: tornare dalla Morinelli, che non vedeva ormai da molto tempo, e cercare di farsi ipnotizzare. Lei non sapeva nulla, non era stata informata dei suoi ultimi problemi, né dei ricoveri. Doveva provare. Una volta in ipnosi, avrebbe di sicuro cominciato a raccontare le esperienze con quelli, e forse avrebbe fatto luce su aspetti finora oscuri, e ce n’erano molti. Sì, l’ipnosi regressiva poteva essere una via, aveva letto in qualche libro che da anni si percorre questa strada nei casi di abduction. Ma soprattutto, l’informazione sarebbe stata trasmessa alla dottoressa, anche senza scrivere un libro, anche senza confessarlo apertamente. Starà a lei poi divulgarla, foss’anche ad una sola persona.
Non fu facile convincerla, ebbe molti dubbi e molte incertezze, dopotutto David aveva avuto una psicosi, ed è clinicamente sconsigliato portare in ipnosi qualcuno malato di schizofrenia. È anche vero che nessuno aveva diagnosticato a David questa patologia, non ancora, e l’episodio psicotico poteva appunto essere solo questo: un episodio. Inoltre, il ragazzo aveva un bell’aspetto, aveva ripreso chili e colorito in viso. Ora che era fidanzato le cose a suo dire erano migliorate di molto, e non aveva motivo di dubitarne. Quando seppe poi chi fosse la fortunata, non seppe se sentirsi mortificata o felice per entrambi. Non aveva però alcuna prova a disposizione che lui ed Iris si fossero conosciuti grazie a lei o al suo studio, e lui negò fermamente. Non le disse nemmeno della storia dei farmaci, che ora per avere un po’ di quiete aveva ricominciato a riprendere di sua iniziativa, anche se a bassi dosaggi, e senza comunicare a nessuno i giochetti che faceva con questi. D’altronde, era abituato a dosare o mixare sostanze chimiche no? Volle vederlo altre due volte prima di tentare la vera e propria seduta, e lui acconsentì docilmente.
Per convincerla disse di avere continuamente quegli incubi di cui avevano già parlato ed altri ancora, oltre ad avere dei sostanziosi sospetti sulla sua infanzia e sulla possibilità di essere stato in qualche modo abusato. Non fu proprio così entusiasta la Morinelli della sua proposta di essere portato in ipnosi, gli estremi per quest’operazione erano appena sufficienti, ed in certi parametri addirittura lacunosi, ma vinse su di lei, oltre al relativo basso grado di pericolosità dell’ipnosi regressiva, anche un fattore che non avrebbe potuto essere meno professionale di quello: l’affetto che provava per lui. È inutile negarlo, per David la dottoressa aveva un debole. Qualunque collega le avrebbe consigliato di rifiutare quel paziente col quale si era instaurato quel rapporto di particolare confidenza, di passarlo ad un altro psichiatra, anche e soprattutto perché lei era coinvolta per il fatto che il giovane le ricordava assai il fratello, scomparso prematuramente per un’overdose.
È doveroso poi sottolineare un altro aspetto, David con le parole era bravo davvero, e poteva portare facilmente quasi chiunque sulla propria idea, arrivando a rasentare addirittura la manipolazione, anche se del tutto candidamente. Fu così che l’indice di stranezza nella vita della bella psichiatra ebbe uno terribile sbalzo, fu un salto a piedi pari nell’irrazionalità.
«…Ora sei su un ascensore che scende. Riesci a vedere il numero dei piani, ogni piano che scendi ti senti sempre più rilassato, sempre più in profondità dentro te stesso. Dieci, nove, otto…» Il giovane aveva letteralmente l’impressione di esserci davvero, in quell’ascensore. Ci erano voluti almeno trenta minuti di induzione ipnotica per arrivare a quel punto, ma il grado di somiglianza con la realtà di quella proiezione aveva dell’assurdo. Vedeva chiaramente i numeri in formato digitale, rossi, apparire sul monitor indicando i piani. Il ricordo del mondo esterno, la consapevolezza di essere in realtà nell’ufficio della dottoressa, andava via via affievolendosi.
«…Quando arriverai al pianterreno, avrai accesso ad ogni parte di te, ogni ricordo andato perduto, ogni aspetto che non avevi considerato, da ogni prospettiva. Avrai accesso ad un luogo, il tuo luogo, e ti sentirai benissimo, perfettamente a casa. Ogniqualvolta ti sentissi a disagio, puoi sempre tornare nel tuo posto e starai bene. Sette, sei, cinque…»
Nonostante le rassicurazioni, stava montando in lui un crescente senso d’angoscia, che si faceva via via più preponderante. Lei non sa nulla, non sa quello che troverò, devo essere forte, devo essere forte.
«Ecco, ci siamo quasi. Appena si apriranno le porte ed uscirai dall’ascensore, ti ritroverai probabilmente bambino, perché assieme andremo al momento in cui tutte le tue paure sono nate, da dove hanno avuto origine i tuoi incubi notturni, ma non ti devi preoccupare, ricorda che è solo un ricordo, ci sono qui io con te. Tutto ciò che dirai verrà registrato, lo avremo recuperato, riascoltare le registrazioni ti aiuterà a guarire. Quattro, tre, due, uno… Zero. Sei arrivato. Esci dall’ascensore e dimmi dove ti trovi.»
Le porte dell’ascensore, in metallo riflettente, si aprirono davanti a lui, o meglio, davanti all’idea che aveva di se stesso. Vide avanti a sé solo buio ed oscurità, quando la dottoressa lo spronò a fare qualche passo, ad esplorare quell’ambiente.
«Non vedo niente dottoressa, non so dove sono, è tutto buio.»
«Non avere paura, non ti lascio solo. David, ti chiedo di andare a quando avevi quattro anni, al giorno prima dell’incubo in cui quegli uomini in nero volevano seppellirti con tuo nonno nel parco.»
«O…o…Ok. Ci provo.» Ci fu qualche momento di assoluto silenzio. La Morinelli volle lasciare al suo paziente il tempo di compiere quella transizione e di acclimatarsi. Era comunque la sua prima ipnosi, ed è comune sentirsi completamente spaesati, le prime volte. Quasi un minuto era passato, ma il ragazzo non dava ancora nessuna risposta, al che Amanda lo incalzò.
«David, dimmi cosa vedi. David… Tutto bene laggiù?» Ancora qualche interminabile secondo di assoluto silenzio, poi il ragazzo finalmente parlò.
«Dottoressa… C’è qui qualcuno con me. Ho paura.»
«No, non devi avere paura, questo è solo un ricordo lontano nel tempo, una proiezione. Tu sei ancora qui davanti a me sdraiato sul lettino…»
«Ne è proprio sicura, dottoressa Amanda Morinelli?» Il tono della voce con cui David aveva parlato la aveva sorpresa. Era profondo, sicuro di sé, di impatto. Quasi non sembrava la voce del ragazzo, ma di qualcuno molto più vecchio, anziano addirittura.
«Certo che ne sono sicura. Sei qui nel mio studio ora. Ciò che vedi è solo una proiezione, come quando si sogna, ma in realtà si è nel proprio letto.»
«Devo purtroppo dissentire. Questo è semmai ciò che appare alla vostra coscienza. La realtà del sogno, come quella in cui vive David in questo momento, è tanto tangibile quanto e se non più di quella in cui vive lei ora. Considerarle irreali è una deformazione dovuta al vostro limitato punto di osservazione, e da un’estrema arretratezza.» La dottoressa rimase basita nel constatare il cambiamento del modo di esprimersi del suo paziente, della voce stessa, e soprattutto del tenore della conversazione forse più adatta ad un’aula di fisica teorica dell’università o ad un tavolo di filosofi piuttosto che a quella situazione.
«Lei sottovaluta il suo paziente, dottoressa.» Non è possibile, sembra quasi che mi abbia letto nel pensiero, no, mi starò sbagliando, avanti Amanda, stai coi piedi per terra. E senza che nella stanza fu detta altra parola, il paziente continuò.
«Al contrario, credo lei abbia ben intuito la natura di questa nostra conversazione che, come vede, si manifesta su più piani.»
«David, cosa stai dicendo? Dove hai preso queste informazioni?»
«Dottoressa, sappiamo entrambi che il suo acume va ben al di là di ciò che ora sta mostrando. Non c’è nessun David qui, lui ora è con noi. Siamo solo io e lei.»
«Ciò che dice mi disorienta. Con chi sto parlando? E dov’è David, con “noi” chi?» La Morinelli pensò di aver fatto un madornale errore a portare in ipnosi un paziente evidentemente affetto da un disturbo dissociativo dell’identità. Un volgarissimo errore per uno psichiatra con la sua preparazione.
«Non si deve rimproverare alcunché, dottoressa. Il suo paziente non soffre di nessun disturbo da personalità multipla. Che la situazione la disorienti è del tutto comprensibile, questo è un problema strutturale molto comune quando, dalla sua posizione in terza densità, si cerca di concepire una densità superiore, la quinta ad esempio, da dove stiamo comunicando noi.» Per quanto incredibile le potesse sembrare, David, o qualcosa al posto suo, stava davvero percependo il pensiero della Morinelli.
«Mi scusi, ma io non riesco a comprendere. Di nuovo, con chi sto parlando?»
«Lei sta ora comunicando con un individuo di natura superiore, difficilmente concepibile per un terrestre. Tecnicamente, sarebbe più consono definirci un complesso di memoria sociale, la coscienza collettiva di una specie superiore che si è individualizzata in un unità di coscienza per permettere la comunicazione.»
«Non mi pare una definizione molto accessibile, sarebbe a dire?»
«Noi siamo una razza originaria di un altro sistema galattico, arrivata ad un punto della propria evoluzione in cui gli individui che la compongono ragionano come un tutt’uno, un po’ come le vostre api o formiche.» Il botta e risposta era tanto serrato da non permettere alla dottoressa nemmeno più il tempo di stupirsi, tanto impegno doveva metterci per comprendere quel linguaggio così astruso e lontano dalla sua normalità.
«Ma cosa c’entra tutto questo con David e con me? Cosa ci fa una razza di un’altra galassia qui nel mio studio a Torino? È assurdo.»
«Stiamo solo tentando di tutelare i nostri interessi. David, nel caso specifico.»
«E da quando David è un vostro interesse? E perché?»
«Fin prima che nascesse sapevamo che avremo dovuto investire energie su di lui. Il tempo non è come voi lo intendete sulla Terra, anche se i vostri scienziati e filosofi l’hanno ormai capito. David, come molti altri, ha delle peculiarità che se espresse ostacolerebbero la nostra agenda.»
«Che cosa mai può fare un ragazzo contro un’intera razza aliena? Suvvia, siamo seri.»
«Comprendere, vedere, svegliarsi e risvegliare.»
«Svegliarsi da cosa?»
«Dal sogno della realtà ottimizzata in cui pensate di vivere.» Dopo qualche battuta la Morinelli provò un profondo senso di vergogna verso se stessa per quello che stava facendo, dare adito ad una persona disturbata di incedere nei propri deliri, quindi tentò di riportare la situazione nella razionalità.
«David, ora torniamo alla realtà per favore. Queste fantasie sono solo degli scherzi della tua condizione, ma se collabori con me tornerai a stare bene.»
«Non c’è nessun David qui! Non è David che dà credito a delle fantasie, ma lei!»
«Non alzare la voce, non c’è nulla di cui arrabbiarsi. Se continuassi a stare al tuo gioco non farei il tuo bene, lo capisci?»
«Lei pensa davvero che sia stato per il bene del suo paziente l’essere preso in cura da lei, l’aver trasferito tutta la mole di sentimenti dovuti alla morte per droga di suo fratello su di lui, l’aver sviluppato un affetto clinicamente controproducente nei confronti di un paziente, solo perché le ricorda il suo lutto. Mattia è morto, e trasferire i sentimenti che aveva per lui su David non lo riporterà in vita, ma ferirà sia lei che il ragazzo.»
La bocca di Amanda si socchiuse, ed una grossa lacrima le rigò il viso. Nella sua mente scorrevano frenetiche le immagini di quel fratello che non era riuscita a salvare, lei che stava studiando medicina non si era accorta del suo dolore e di quel malessere che lo stava uccidendo. Le sembrò di avere davanti il suo corpo sdraiato sul lettino dell’obitorio, riusciva a vedere il colorito violaceo del suo torace arrivare fino al collo, le sue labbra blu. Era solo un ragazzo, aveva solo vent’anni. E scoppiò a piangere appoggiandosi al corpo sul lettino.
«Questo non è il corpo di suo fratello all’obitorio. È il suo paziente che ha portato in ipnosi! Non lo vede che non può essere professionale nelle sue condizioni?» Quando dalla bocca di David uscirono queste parole, Amanda si scosse allontanandosi un poco con la poltroncina a rotelle sulla quale era seduta. Com’era possibile, David non poteva sapere di suo fratello, non glie ne aveva mai parlato. Non poteva conoscere la loro storia, lei era originaria di Milano. Allora era vero, era qualcun’altro a parlare al posto di David.
Poco dopo sembrò riprendere consapevolezza, e prese le salviette dalla scrivania per asciugarsi il viso. Per qualche momento nessuno parlò, come se quella presenza che parlava attraverso il paziente volesse lasciare il tempo alla dottoressa di ricomporsi. Appena la Morinelli sembrò riuscire a gestire il tumulto delle proprie emozioni, la voce continuò.
«Sono molto dispiaciuto di aver dovuto toccare questo tasto per lei dolente, ma se questo è servito per farle comprendere che sta comunicando con qualcosa che va al di là della sola coscienza del suo paziente, allora il nostro scopo è stato raggiunto.» La donna restò in silenzio, guardando il corpo disteso sul lettino con un misto di distacco e freddezza, poi ribatté.
«Non sta a lei giudicare il mio operato come psichiatra, e non si deve permettere di entrare nella mia vita privata a suo piacimento.»
«Lei stessa si sottopone al suo proprio giudizio, noi lo portiamo solo in superficie.»
«Adesso, lasciando perdere i miei fatti personali, voglio sapere perché state tormentando il mio paziente, e che cosa c’entrate con i suoi disturbi e con gli incubi di cui mi ha parlato in precedenza.»
«Abbiamo già detto che il suo paziente è di nostro interesse. Lui, come molte altre persone, è una persona particolarmente introspettiva e molto più consapevole della media. Unite a queste caratteristiche ci sono le sue peculiari qualità di scrittore e comunicatore che, se pienamente espresse, otterrebbero un largo seguito, aspetto questo in conflitto con le nostre priorità. Non possiamo permettere che il signor David Pilastro renda consapevoli altri esseri umani del nostro operato qui. Lui e gli altri come lui sono un enorme pericolo per le nostre attività. Innescherebbero una reazione a catena che porterebbe poi inevitabilmente ad una critical mass, ovvero una massa critica, che risveglierebbe gli umani dal loro giogo, rendendo noi ed il nostro operato inefficace.»
«Come vi permettete di fare questo, andare ad interferire con il libero arbitrio di altri esseri è immorale! Come fate a mettere in atto tutto ciò?»
«La moralità è un’invenzione prettamente umana. Esiste solamente una legge in tutta la Creazione, e noi la stiamo rispettando. Per rispondere alla sua seconda domanda, noi interferiamo nelle vite di questi particolari individui fin dalla gestazione in utero, inviando immagini mentali e specifiche vibrazioni che interferiscono nel campo elettromagnetico umano. Riusciamo così a manipolare le relazioni di colui che seguiamo, le reazioni degli umani a lui più vicini, cosicché esse vadano ad influire negativamente sull’individuo. Inneschiamo drammi familiari, incidenti, problemi di salute, dipendenze. Tutto il necessario per rendere inattivi i particolari talenti degli individui che minano i nostri interessi, incentivando invece quelli a noi favorevoli. Lavoriamo in questi termini su una piccola percentuale della vostra popolazione, quella che andrà a ricoprire posizioni chiave nei settori della comunicazione e dei media, della cultura e delle arti, asservendo l’inconsapevole intellighenzia umana ai nostri scopi.»
«Ma questo è terribile! Sembra un romanzo di fantascienza!»
«È merito nostro se i romanzi di fantascienza vengono considerati tali a partire dagli scrittori stessi, se così non fosse le intuizioni che hanno dato vita a quei racconti apparterrebbero alla cronaca e alla saggistica, e non alla narrativa fantastica.» Amanda viveva quei momenti in uno stato a tratti confuso, ad altri incredulo, la mole delle informazioni che la stavano investendo era di una portata tanto rivoluzionaria ed incredibile da farla sentire quasi ubriaca. Non c’era tempo però di lasciarsi andare, per quanto ambigue, quelle informazioni avevano una logica, e non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto continuare ad ottenerne.
«E le altre persone, quelle senza particolari talenti, anche su di loro attuate un programma di manipolazione? perché questo è, una manipolazione…»
«Ogni individuo ha uno o più talenti, compito nostro è quello di dirigere l’attenzione degli umani, i loro interessi, i loro desideri, verso attività che rendano difficile l’analisi profonda della loro condizione, così che non possano diventare consapevoli del loro asservimento. Pornografia, mercificazione del corpo femminile, moda e tecnologia, sport, cinema e televisione, social media. Questi sono i nostri campi d’azione preferenziali. La nostra è un’opera di propaganda a lungo termine, in effetti, da migliaia di anni, instilliamo separazione, fomentiamo guerre e paura del diverso, ci inseriamo nei sistemi di credenze contaminandoli ed accentuando differenze inesistenti, miniamo l’autostima degli umani rendendo per loro desiderabili standard estetici irraggiungibili. Finché l’uomo sarà diviso, sconnesso dal suo vero sé e scisso dalla sua più alta natura, finché egli vedrà come separato da sé il suo stesso pianeta e l’universo, e nell’altro uomo vedrà un’estraneo, noi continueremo a prosperare, a privarlo di ciò di cui necessitiamo senza che se ne renda conto. Decideremo per lui e per il suo pianeta e faremo ogni cosa purché resti in una perpetua infanzia.» La dottoressa era sbalordita. Ora capiva, ogni cosa seguiva uno schema ben preciso. Ne aveva un esempio lampante proprio davanti agli occhi: un giovane di talento e di spiccata intelligenza, la cui vita andava sprecandosi tra droghe ed un lavoro che lo annichiliva, anziché realizzarlo. Le sue capacità creative erano indubbie, ma come un pazzo che distrugge la propria opera poco prima della sua conclusione, non riusciva a concretizzare alcunché, autosabotandosi ogni santa volta. Non era lui che si autosabotava, egli stesso era sabotato. La Morinelli doveva solo estendere quel ragionamento al resto della popolazione, e quel terribile piano alieno appariva chiaro davanti ai suoi occhi, nella sua pragmatica e crudele efficienza.
«Non riesco a capire, ma perché non eliminate direttamente le persone che ostacolano il vostro piano? Sarebbe facile poi, per voi, atterrare nelle capitali mondiali e conquistare il pianeta, non vedo cosa vi fermi.»
«Conquistare fisicamente il pianeta Terra andrebbe contro la Legge Unica a cui tutto il cosmo deve sottomettersi. Non è possibile, glielo abbiamo detto, anche noi abbiamo una regola. C’è poi un altro aspetto di cui non è a conoscenza, è che è il principale motivo per il quale noi siamo qui e che ci frena dall’eliminare i personaggi scomodi. La nostra prima fonte di approvvigionamento è l’energia psichica che voi emanate. Voi umani producete costantemente una particolare qualità di energia coi vostri pensieri, con le vostre azioni, con le vostre guerre, con le vostre arti. Paradossalmente, la miglior qualità dell’energia che producete è proprio quella dei grandi pensatori, degli artisti, degli scrittori, delle guide spirituali, l’energia di quegli individui che se lasciati liberi di agire sarebbero il nostro più grande ostacolo. Persone come David sono paragonabili ai vostri grandi giacimenti di combustibili fossili, essenziali per i vostri sistemi di produzione ed economici, ma allo stesso tempo la più grande minaccia alla sopravvivenza della vostra società e della specie. Per questo è nato il nostro programma di manipolazione, per gestire le nostre risorse.»
«Questo significa che se controllate gli individui più lungimiranti, le avanguardie dell’umanità, noi non saremo mai liberi.»
«Non possiamo controllare l’eternità, ma faremo ogni cosa perché quel momento arrivi il più tardi possibile.»
«Ma non potreste solamente fare un accordo coi nostri governi, chiedere all’umanità di fornirvi delle energie dando qualcosa in cambio, un libero ed equo scambio, non sarebbe più semplice?»
«Un libero scambio presuppone trasparenza, e l’umanità non accetterebbe mai di rinunciare al suo pieno potenziale. Senza il nostro influsso arrivereste ad una tale vetta che nessun misero baratto potrebbe convincervi a rinunciarvi. Poi c’è un aspetto ancora che lei non prende in considerazione, il materiale genetico. Noi ricaviamo da voi del materiale genetico appunto, voi lo chiamate bambini, figli, nessuna madre rinuncerebbe a ciò.»
«E perché mai prendete i nostri figli?»
«Noi dobbiamo. La nostra specie si è nostro malgrado evoluta in una forma non più favorevole alla vita, abbiamo commesso degli errori. Il nostro sistema riproduttivo è compromesso da migliaia di anni, abbiamo sopperito al problema tramite ciò che voi chiamate clonazione, ma la qualità dei nostri involucri fisici è andata via via deteriorandosi, portandoci sull’orlo dell’estinzione. Dal materiale umano otteniamo la possibilità di ibridare le nostre due specie, unica possibilità di salvezza per noi. Voi uomini fareste lo stesso con una specie inferiore se ne aveste necessità. Fate molto di peggio per molto meno con quelli che voi chiamate animali.»
«È triste da dire, ma purtroppo avete ragione. Mi chiedo se davvero non ci sarebbe un’altra via. Ma, ho un’altra domanda, se non volete che le persone si risveglino, che la gente sappia, perché mi state dicendo tutto questo?»
«Lei, dottoressa Morinelli, sta dimenticando che per noi le linee temporali sono diversamente accessibili. Passato, presente, futuro, coesistono nello stesso momento. Sappiamo benissimo che non potrà trasmettere queste informazioni.»
«Perché ne siete così sicuri? Morirò prima di poterle comunicare?»
«Lei vivrà una lunga vita dottoressa.»
«Allora perché non dovrei?»
«La vostra gente non dà alcuna credibilità a certe fasce della popolazione.»
«Ma io sono un dottore, una psichiatra! Sono rispettata nella società, le persone mi affidano la loro salute!»
«Qualsiasi rispettabile posizione possano aver assunto in precedenza, quelli che chiamate internati psichiatrici perdono qualsiasi credibilità agli occhi degli altri umani. Non si affanni, dottoressa Morinelli, non ce ne sarebbe motivo.»
Dopo quella pesantissima rivelazione, la dottoressa si chiuse per qualche minuto in se stessa, lo sguardo assente. Senza che lei riportasse il suo paziente in superficie, nuovamente allo stato di veglia, David si strofinò gli occhi, ritornando in sé.
«Dottoressa, non funziona, non riesco ad andare in ipnosi, sono stanco ora, ci proveremo la prossima volta.» Con lo sguardo fisso sul tappeto sotto i suoi piedi, la dottoressa rispose, completamente frastornata.
«Hai parlato sotto ipnosi per quasi un’ora David.»
«È incredibile, non mi sono accorto di nulla! Abbiamo registrato tutto, non è vero?»
«La prossima volta parleremo della seduta e riascolteremo i nastri. Martedì prossimo alle tre del pomeriggio, ti va bene?»
«Certo, di martedì, come sempre. Arrivederci dottoressa. Grazie.»
«Arrivederci.»
-15-
Certo, era preoccupata, ma con chi poteva parlarne? Non poteva certo andare da quelle poche amiche che aveva, il cui massimo problema era il cercare di non sforare troppo con le tempistiche universitarie, né con suo fratello, troppo acerbo per qualcosa di questa portata. Ma lei che cosa pensava? Non stava forse cercando di combattere con qualche cosa di molto più grande di lei? Dalla schizofrenia non se ne esce, non esiste una cura, e uno che dice di venire rapito dagli alieni a cadenza mensile non può che essere psicotico. C’era però un altro fattore importante in quell’equazione: lei lo amava. Iris era follemente innamorata di quel cervellotico, ansioso, allucinato ragazzo alle prese con problemi di portata intergalattica, dalla sua prospettiva, o più terrenamente di natura psichiatrica, alla vista di un normale osservatore. Certo, c’erano momenti in cui David era completamente lontano da lei, lo sguardo velato e triste, occupato da dilemmi lontani anni luce dalle normali quotidianeità di ognuno, ma quando riatterrava sulla terra, beh lui c’era davvero. Era lì, accanto a lei con tutto se stesso, presente come non era mai stato nessuno, realmente preoccupato del suo benessere e di quello di suo fratello. Chi mai le aveva prima di allora riservato un tale privilegio?
Iris cercava senza farsi scoprire di studiarlo, lo osservava, notava le sue assenze, si sforzava di capire cosa davvero lo tormentasse. Per quanto si sforzasse però non ci riusciva ad arrivare, non arrivava lì dove era confinato lui, in quel mondo di ombre e di paure, di mostri e di astronavi, vicini tanto da toccarsi, eppure così distanti.
Però lo doveva ammettere, a volte certi discorsi e la soggezione possono tirare brutti scherzi, in più di qualche occasione lei stessa aveva avuto paura. Quando si vede il terrore puro negli occhi di chi si ama, non si può non avvertire come un pugno alla bocca dello stomaco la sensazione di immediato pericolo, poi c’era quel diavolo di cantiere, o almeno, supponeva fosse un cantiere - perché non l’aveva ancora visto coi suoi stessi occhi - che faceva quel dannato rumore tutto il giorno, a dire il vero, spesso anche di notte, wohhh woooohhhhh wooohhhh, ma che razza di macchinario era? Ma poi, è legale alle quattro del mattino fare un tale casino? La faceva andare fuori di testa, unito al lavoro, l’alzarsi presto ed i deliri del suo ragazzo, qualche volta credeva davvero di rischiare lei stessa un soggiorno forzato in un reparto psichiatrico.
La mente umana può giocare brutti scherzi, a volte. Avrebbe giurato di aver percepito in più di qualche occasione una presenza, un qualcosa di oscuro aggirarsi nella sua casa, nei luoghi che condivideva con lui, una sensazione opprimente che ti si attacca addosso e non ti molla più. Soggezione? Paranoia? Spesso non si sentiva abbastanza lucida per riuscire a darsi una risposta chiara. Aveva visto con i suoi occhi le cicatrici che David ormai tentava di nasconderle, e a quel punto le sembrava incredibile che se le potesse davvero procurare da solo, solamente per confermare a se stesso le sue stesse storie.
Forse doveva staccare, solo per un po’. Andare via da quella casa, trovare una nuova stabilità, ritrovare quell’obiettività che ormai sentiva perduta.
I sogni, erano i sogni la cosa che forse la confondevano di più. Erano un chiodo fisso, provava a restare serena, a non darci peso e a vivere la sua vita con ottimismo, ma quando vieni tormentato dagli incubi, da ombre che ti seguono e ti toccano, dove ciò che ricordi è solo la percezione di viscide dita sulla propria pelle, beh allora è molto difficile essere mentalmente stabili. Alle volte si ritrovava bloccata nel letto, come paralizzata, cercando invano di chiedere aiuto, di urlare, ma l’unico effetto che riscontrava era il sentirsi ansimare, ed essere poi presa da folle panico non appena scorgeva delle sagome scure attorno al suo letto. Una delle esperienze più terrorizzanti che si possano vivere. Aveva letto su internet che quelle venivano chiamate paralisi notturne, un non così raro disturbo che avviene ad alcuni che si ritrovano immobili perché, nonostante il corpo dorma, la mente rimane vigile e sveglia. Aveva anche letto di visioni di mostri, di gnomi o altre amenità, “allucinazioni ipnagogiche” venivano definite dagli esperti. Allucinazioni o no, vivere una tale esperienza toglierebbe la voglia di ridere a chiunque.
«Allucinazioni. Sono solo al-lu-ci-na-zio-ni» si ripeteva a bassa voce, cercando invano di ricomporsi. Poi continuava nel suo dialogo interiore, come se stesse esponendo i suoi dubbi a qualcun altro, per esser chiara se stessa: -Ma allora quell’incubo, in cui ero in quell’ambiente futuristico, spaziale, dove avevo visto David con quei mostri, come poteva essere solo un sogno? Avrei giurato di aver trovato sul suo corpo un ematoma nello stesso punto in cui quegli esseri lo avevano colpito! Come posso essermelo solo sognato? No, non può essere una coincidenza. Dio mio impazzirò, me lo sento.-
Iris aveva capito che lei stessa aveva bisogno di aiuto, un qualche tipo di supporto per non perdersi come aveva visto perdersi il suo ragazzo. Con lui doveva tenere la bocca chiusa - Dio solo sa quanto avrebbe avuto bisogno di parlargliene - ma non poteva, lei doveva essere quel porto sicuro sul quale David doveva fare affidamento, non poteva permettersi di mettere ancora più confusione e terrore in quella mente smarrita.
Non poteva parlarne con nessuno, non c’era una singola anima fidata al mondo a cui potesse affidare tali confidenze, nessuna. O forse sì? La Morinelli! Con la dottoressa posso parlare! Chi meglio di lei mi aiuterebbe a restare coi piedi ben piantati a terra?
Detto fatto, prese il telefono e fissò un appuntamento di lì a qualche giorno. Si sentiva realmente sollevata, vivere sempre a stretto contatto con un paziente psichiatrico farebbe traballare le fondamenta della realtà di chiunque, ma con l’aiuto di una psichiatra tutte le cose sarebbero tornate al proprio posto, finalmente, una volta per tutte.
Mancavano cinque minuti alle due, aveva assegnato ad Iris il primo appuntamento del dopopranzo. Era agitata, nervosa, si sentiva le mani sudate. Cosa avrebbe dovuto fare adesso? Forse non poteva continuare a seguire Iris ora che era la convivente di un altro suo paziente, doveva forse consigliarle un altro collega? Ma queste erano solo scuse, Amanda lo sapeva benissimo, non era questo che le faceva salire il cuore su per la trachea diritto nella gola. Come avrebbe dovuto approcciare il discorso? Cosa poteva esserci di tanto antiscientifico e non professionale quanto ciò che sentiva dover dire alla sua vecchia paziente? Si versò un bicchiere di acqua ghiacciata appena uscita da quel piccolo frigo che aveva nello studio, quando il telefono squillò. Era la segretaria, annunciava l’arrivo della signorina Paoli, Amanda le disse di farla entrare.
«Iris, accomodati. È da un po’ che non ci vediamo, dove eri sparita?»
«Buongiorno dottoressa. Sì, ha pienamente ragione, sono stata presa da mille cose, il lavoro, il trasferimento a casa di David, i suoi problemi, purtroppo.»
«Sì, ho saputo che vi siete messi assieme. Mi sono sempre chiesta, chissà dove si saranno conosciuti? Ad ogni modo, se vi amate e state bene assieme, va bene così»
«Sì dottoressa, ci amiamo. Però sa, come dicevo lui ha avuto dei grossi problemi di salute, e la nostra intera vita è diventata una follia. A sentire lui sembra che viviamo in un film di fantascienza! È che sa, alla lunga, nemmeno io so più in che cosa credere, a volte è difficile. Non le nascondo che capita che io mi spaventati non poco, poi il giorno dopo mi prendo per cretina da sola.»
«Iris, vivere accanto ad un paziente con problemi psichiatrici è una delle esperienze più dure per una persona, un famigliare o una compagna. Naturalmente la psicosi non è contagiosa, ma stando a stretto contatto con qualcuno il quale ne è affetto e senza molti strumenti a disposizione, capita di arrivare a confondersi al punto tale da non capire più ciò che è vero e ciò che non lo è.»
«È proprio quello che sta capitando a me!»
«Ok, ma vedi, la situazione qui credo sia un tantino diversa.»
«In che senso? Cosa vorrebbe dire?»
«So che ti sembrerà strano quello che ti sto per dire Iris, e che è ancora più allucinante ascoltarlo da una psichiatra, ma penso che… Dio mio, come posso spiegartelo senza sembrare completamente pazza?»
«Dottoressa, non la seguo.»
«Ascolta cara, la settimana scorsa io e David abbiamo avuto un colloquio, mi ha chiesto aiuto ed io ho azzardato una poco usuale tecnica terapeutica, andando in realtà contro alla mia deontologia professionale, perché è sconsigliata con pazienti psicotici. Sentivo però dentro di me che dovevo tentare. Ho portato David in ipnosi profonda, volevo andare a scavare nel suo remoto passato per andare alle origini dei suoi disturbi, i traumi scatenanti…»
«E che cosa ha trovato?»
«Lo so, ti sembrerà incredibile, ma…non era più lui.»
«Che cosa? In che senso?»
«Qualcosa si è introdotto nell’ipnosi, e parlava attraverso di lui. Non mi era mai capitato prima, in realtà non credevo fosse nemmeno possibile.»
«Ma di che cosa sta parlando? Potrebbe essere più chiara?»
«Hai ragione Iris, scusami, è che questa cosa mi ha scosso profondamente e devo ancora riuscire a collocarla. Allora, una presenza ha cominciato a parlare, la voce era diversa, il lessico, il modo di parlare, tutto. Quello non era David. Io ho subito pensato di essere stata una cretina, che non dovevo ipnotizzarlo avendo lui una storia di psicosi, pensavo di aver scatenato l’acutizzarsi di un disturbo da personalità multipla, ma quella cosa ha cominciato a dire cose che non poteva assolutamente sapere! Mi leggeva letteralmente nel pensiero, non avrei nemmeno dovuto parlare che avrebbe comunque potuto rispondere ai miei ragionamenti interni. Ha detto delle cose sul mio passato, cose che non sa nessuno. Iris, quello non era David ti dico!»
«Lei mi sta spaventando.»
«Mi dispiace, non era mia intenzione. Ma te lo dovevo dire.»
«E secondo lei che cos’era quella cosa?»
«Ti dico quello che mi ha detto lei, o lui, o loro. Ma tieniti forte sulla sedia Iris. Quella cosa dice di essere un complesso di memoria sociale, una sorta di specie aliena evoluta a tal punto da non ragionare più singolarmente come individui, ma come se l’intera razza fosse un unico organismo, una sorta di supermente. A loro dire non sono di qui, provengono letteralmente da un’altra galassia. Lo so, è folle, ma devi credermi.»
«Dottoressa, io la stimo molto, ma qua mi sembra che si stia andando davvero fuori dal seminato. Io capisco tutto, ma questo è troppo.»
«Iris ascoltami, questa è una faccenda seria e, per quanto possa sembrare fantascientifica, è reale. Dobbiamo fare qualcosa per il tuo ragazzo e dobbiamo farlo in fretta, se non lo vuoi perdere. Le cose potrebbero mettersi molto male. Un collega mi ha dato il contatto di un professore universitario, un esperto riconosciuto a livello mondiale, chiamiamolo, forse lui ci può aiutare.»
«Dottoressa Morinelli, io sono venuta qui per avere un appoggio, per ritrovare un equilibrio e la matassa della realtà, e lei invece mi parla di alieni, sfruttamento dell’energia psichica e quant’altro. No, questo è davvero troppo per me. Arrivederci dottoressa, le faremo sapere se David migliora.»
Senza proferire altra parola Iris lasciò lo studio, lasciando ad Amanda tutta la sua amarezza e la vergogna per la situazione in cui si era appena ficcata con una paziente. Si prese la testa fra le mani e, smarrita, pianse.
Quando aprii gli occhi sentì il bruciore ustionargli le cornee, non riusciva a realizzare dove fosse, in un primo momento aveva creduto di essere nella vasca da bagno di qualcuno, ma quel liquido vischioso e verde nel quale era immerso non assomigliava per niente all’acqua riscaldata e profumata di bagnoschiuma di una comune vasca da bagno. Provò a muovere il suo corpo, ma delle fitte accecanti lo fermarono all’istante. Nelle braccia, nel torace e l’addome, così come nelle cosce aveva inseriti una serie di cavi, degli spinotti che gli entravano nella carne. David aveva paura, una paura folle: lo avevano preso di nuovo. Non ne uscirò mai da questa storia maledetta, mai! Figli di puttana…
Alla sua destra una piccola ombra scura gli si avvicinò, il cuore prese a martellargli in petto con una forza inaudita, voleva fare qualcosa, dimenarsi, proteggersi, qualsiasi cosa, ma non gli riusciva che di grugnire la disperazione che aveva nel cuore, l’odio che provava per quegli esseri. Una patina di quella sostanza verdastra gli aveva ricoperto gli occhi, non riusciva a mettere a fuoco null’altro se non la sagoma scura di quell’entità che gli si faceva vicina, ormai era a qualche decina di centimetri da lui, alzò un arto nella sua direzione, quella mano che sembrava quasi umana lo colpì sul volto, con forza.
«Hey ragazzo, tutto bene? Cos’hai preso? Sei drogato?»
Il colpo sul viso sembrò cambiare istantaneamente l’ambiente che aveva attorno, non vide più nessuna vasca aliena, né piccoli esseri inquietanti. La sola cosa che vedeva era un omone vestito di arancione davanti a sé, ed una potente luce blu che andava e veniva.
«Che cosa ci fai tutto nudo? Sei stato derubato? Hai subito violenza? Sta tranquillo andrà tutto bene, ora ti portiamo con noi in ospedale.»
David non proferì parola, totalmente scosso quale era. Se non lo aveva sconvolto la vista della croce rossa e dell’ambulanza, ciò che davvero lo aveva atterrito era il capire dove si trovasse ed in quali condizioni: nudo come un verme, sdraiato sui gradini del monumento ai caduti di piazza Castello, all’alba. Entro qualche ora tutta Torino avrebbe saputo di quel pazzo trovato nudo in centro, voleva morire, se ne avesse avuto la forza si sarebbe tolto la vita con le sue stesse mani lì sul posto.
«Dove mi portate?» riuscì a balbettare al volontario del 118 mentre gli veniva adagiata sul corpo una di quelle coperte termiche.
«Verrai con noi in ospedale, poi in pronto soccorso decideranno cosa fare.» Anche se l’inserviente non lo aveva espressamente detto, David aveva ben compreso che la meta ultima sarebbe stata il reparto di psichiatria, un’altra volta. Cosa avrebbe detto questa volta ad Iris?
Qualche ora dopo la ragazza era ai piedi del suo letto di ospedale, e la persona che aveva davanti ricordava solo vagamente l’uomo di cui si era innamorata. Sedato al punto da non riconoscerla, si ritraeva spaventato rannicchiandosi su se stesso. Avvicinatasi per tranquillizzarlo, Iris scorse sulla parte posteriore del braccio di lui una serie di piccole e curiose cicatrici, perfettamente rotonde ed allineate. Non aveva mai visto niente del genere, un brivido freddo le percorse la schiena, deglutì a fatica, inquieta. Uscì dalla stanza, prese il cellulare e compose il numero della dottoressa, che rispose al terzo squillo.
«Dottoressa sono Iris. Chiami quel professore, la prego.»
-16-
In quelle due ore le due donne, tanto diverse quanto unite da una verità talmente inverosimile da non tollerare nessun altro confidente, rimasero in silenzio per quasi tutta la durata del viaggio. Avevano preso accordi per quel giorno con il professor Leonardi, si erano incontrate secondo i piani e si erano tuffate nelle mille piccole azioni che un viaggio medio lungo in autostrada comporta. Non avevano avuto il coraggio nemmeno di guardarsi, se non appena incontratesi per i saluti di rito. Sono pazza, sono completamente pazza, mi radieranno dall’albo, di sicuro.
Erano queste le preoccupazioni che tormentavano Amanda, aveva comprensibilmente paura per la sua carriera, la sua reputazione, e non per ultima per la sua obiettività, messa in serio pericolo dalla situazione contingente.
Il fluido scorrere del traffico, unito al panorama che via via diventava sempre più verde e rigoglioso, attenuavano appena le loro inquietudini. La dottoressa, per quanto giovane e nel fiore degli anni, sentiva su di sé la responsabilità sulla ragazza che le sedeva accanto, non solo per quei diciassette anni che le separavano, ma soprattutto per il suo status di paziente. Come avesse letto sul corpo di Amanda e le sue reazioni tutte quelle sue frasi rimaste inespresse, Iris ruppe il silenzio:
«Dottoressa, voglio che lei sappia che ho deciso di mia spontanea volontà di incontrare questa persona, voglio solo qualche parere da qualcuno più ferrato di noi, non si deve sentire in nessun caso responsabile di niente. Ora lei qui non è la mia psichiatra, ma una conoscente che mi sta dando una mano, non crede?»
«Beh, sì. Credo sia meglio affrontarla così. Certo è che noi agiremo in ogni caso nel bene di David, coi piedi per terra sì, ma questo è un terreno che esula dalla psichiatria, abbiamo quindi bisogno di un altro tipo di scarpe. E comunque, chiamami Amanda, e smettila di darmi del lei, d’accordo?»
Iris le sorrise, ed istantaneamente la tensione nell’auto si allentò, come se qualcuno avesse aperto una valvola per diminuire la pressione presente.
Il SUV della Morinelli aveva oramai quasi raggiunto la propria destinazione, il paesaggio era stupendo ma le due quasi non ci fecero caso, Arona, una graziosa cittadina a ridosso di un lago, incastonata in una cornice alpina.
Pochi istanti dopo aver suonato il campanello di una villetta indipendente con giardino, giunse alla porta un uomo sorridente, sulla cinquantina. Aveva accolto le due donne a dir poco calorosamente, emanava da egli un’aura rassicurante, quegli occhi rivelavano una particolare vitalità, una curiosità propria dell’infanzia che, evidentemente, il professore era riuscito a conservare.
«Sedetevi, prego. Spero che il tè sia di vostro gradimento, sono un appassionato ed amo condividere la mia passione con gli altri. Se preferite del caffè, chiedo a mia moglie di prepararlo.»
«No, il tè va benissimo, per tutte e due. E da profana dico che è davvero buono!» disse la dottoressa.
«Su poche cose sono intransigente, la qualità dei miei tè è una di queste. Questo è tè verde al gelsomino, uno dei miei preferiti.»
Dopo una decina di minuti di innocenti e soprattutto leggere ciancerie, e dopo delle evidenti esitazioni da parte della dottoressa, fu il professore a reclamare la carne al fuoco, senza ulteriore spreco di tempo e parole:
«Allora ragazze - permettetemi di chiamarvi così, potrei essere vostro padre - non siete venute qui per assaggiare il mio tè, non è così?»
A quel punto Amanda dovette ricorrere ad un coraggio che stentava a presentarsi, buttandosi alle spalle ogni senso di pudore.
«Professore…»
«Mi chiami Armando, la prego.»
«Armando, noi abbiamo un grosso problema con il suo fidanzato - indicando con un cenno Iris - Vede, da qualche tempo ormai è vittima di una sorta di interferenza. All’attuale stato di cose, le mie competenze in psichiatra sono del tutto inutili.»
Come una bottiglia di spumante precedentemente scossa a cui viene malamente tolto il tappo, le parole della dottoressa uscirono copiose, affidate all’ascolto ed all’analisi del professore. Ciò di cui la Morinelli si rese protagonista aveva più i contorni di una confessione, che non di un resoconto del difficile caso di un paziente che susciti dubbi sulla possibile terapia da adottare.
Iris, come il professore, ascoltava la sua psichiatra, che non vedeva ormai più come la propria terapeuta. Ai suoi occhi la dottoressa era diventata una compagna di viaggio, di un’avventura in cui due pari si sostengono l’un l’altro. Ne vedeva ora le debolezze, la sua umanità, e quella sua particolare sensibilità, senza maschere o contenzioni. La Iris di un anno prima non avrebbe mai potuto immaginare la situazione in cui si sarebbe poi ritrovata quel giorno, tanto paradossale quanto, purtroppo, reale. Alieni, rapimenti, coscienza collettiva, energie psichiche, sudditanza intergalattica, manipolazioni della coscienza umana. Era questo il quadro che la Morinelli stava esponendo al professore, confidando in cuor suo che l’esperto avrebbe trovato una soluzione, in quanto esperto.
Leonardi ascoltava serio senza mai intervenire, lo sguardo fisso su un qualche punto del pavimento, sembrava punteggiare ogni frase di Amanda con un qualche grugnito, annuendo assorto. Prendeva molto sul serio la situazione che le due donne gli stavano configurando.
Dopo aver ascoltato lo sfogo rimase ancora qualche momento in silenzio, immobile, statuario. Si rianimò poi di scatto facendo addirittura sussultare le due donne. Poi finalmente parlò.
«Ragazze, sono ormai trent’anni che studio l’argomento, intervistando i malcapitati che hanno avuto a che fare con i visitatori, loro malgrado. Ospiti non graditi, li definirei»
«Quindi ne avrà sentite moltissime di storie come questa» incalzò la dottoressa.
«Ho sentito molte storie sì, di persone rovinate nell’anima e nel corpo da quegli esseri, terrorizzate, traumatizzate. Ho sentito poi l’impulso dal più profondo di me stesso di intervenire, dovevo fare qualcosa, ma soprattutto dovevo capire, perché noi non sappiamo nulla e il poco che ci viene detto è spesso al fine di manipolarci, renderci docili»
«E come è intervenuto? Che cosa ha fatto? Cosa mai si può fare contro un nemico tanto avanzato?» chiese la più giovane.
“Io ed altri, amici e colleghi interessati all’argomento, ci siamo organizzati creando un gruppo, un’associazione. Da molti anni ormai studio varie discipline esoteriche, il potere della mente, il fenomeno UFO ed il paranormale: con questo gruppo non ho fatto altro che mettere in pratica ciò che avevo imparato, ma con spirito critico ed oggettivo, alla occidentale insomma. Abbiamo fatto molti esperimenti, telepatia, viaggio astrale di gruppo, sedute di canalizzazione. C’è voluto del tempo, ma adesso siamo un gruppo davvero preparato ed affiatato. Abbiamo raggiunto dei risultati notevoli, vi stupirebbero, credetemi»
«Le crediamo, professore - disse Amanda - e a quali conclusioni siete giunti? Lei cosa mi consiglierebbe, cosa consiglierebbe a questo povero ragazzo e questa sua bella fidanzata?»
«Questo è un caso molto delicato, ma non mi dite niente di nuovo. Si sta delineando molto chiaramente il loro progetto, e non abbiamo molte chance a disposizione se non quella di prepararci al meglio per resistere. Unirsi al nostro gruppo o ad uno analogo è il primo consiglio che mi viene in mente. Questo è molto importante, perché gli alieni agiscono in primis a livello energetico, e l’unirsi del ragazzo al nostro gruppo creerebbe, con le dovute procedure, una difesa energetica molto più forte, dovuta al campo aurico dei partecipanti che, congiungendosi, ne formerebbero uno unico»
«Come ha ottenuto queste informazioni professore?» chiese Iris.
«Nel nostro lavoro di gruppo abbiamo negli anni messo in atto attività di canalizzazione di entità spirituali ed extraterrestri. Siamo entrati in contatto con ciò che sembra la controparte positiva e speculare del gruppo alieno con cui avete avuto problemi»
«Anche questa è un’anima di gruppo? Come si chiamava, un co…»
«Complesso di memoria sociale, o collettivo, che dir si voglia - intervenne il professore concludendo la frase di Iris - L’anima di gruppo che ha risposto alla nostra chiamata si fa chiamare RA, nonostante nella loro dimensione, a loro dire, non necessitino di nomi»
«RA come la divinità egizia?» chiese la Morinelli.
«Non come la divinità egizia, lui è la divinità egizia. O meglio, lui, o loro, è quell’entità che è entrata in contatto con il popolo dell’antico Egitto e che è stata poi divinizzata, deificata suo malgrado. Non è Dio né un dio, e non smette di ripeterlo, ma il suo avanzato stato di evoluzione è stato visto dagli antichi come prova della sua divinità. Ancora oggi abbiamo a che fare con le conseguenze di quelle azioni commesse al tempo, migliaia di anni fa, e lui è tornato per mettere fine a tutto questo, ai problemi che involontariamente lui stesso ha innescato»
«Molto interessante - disse la Morinelli - e questo RA le ha per caso parlato del suo antagonista negativo? Insomma, le ha mai accennato a quel gruppo che interferisce con il mio paziente?»
«Sì, me ne ha parlato. RA definiva quella forza che sta attaccando ora David come gruppo di Orione, una sorta di confederazione al negativo di razze concentrate sul predominio e la prevaricazione, se RA è un complesso di memoria sociale di servizio al prossimo, Orione è al servizio del sé, dell’ego insomma».
«Quello che dice è molto difficile da capire, professore» intervenne Iris.
«Ragazza mia, non è difficile quanto sembra. Secondo RA, l’universo, che è una sostanza unica, si esprime in due polarità, entrambe al servizio dell’Uno, ma mentre la prima lo serve attraverso il prossimo, l’altra lo fa attraverso il sé, ovvero se stessa.»
Le due donne non potevano credere alle loro orecchie. Ciò che stavano ascoltando era pura fantascienza, ma lo dovevano accettare. Sarebbero tornate volentieri alla vita di sempre, dimenticando tutte quelle follie sugli extraterrestri, ma qui c’era in ballo la vita di una persona, non potevano tirarsi indietro. La dottoressa poi fece una domanda più che legittima a Leonardi:
«Perché allora RA, che è il rivale naturale di questi di Orione, non interviene in aiuto di David?»
«Vede dottoressa, la legge cosmica è una legge di non interferenza, l’unica cosa in potere di RA è consigliare dall’esterno, contribuire energeticamente ed in maniera telepatica affinché l’individuo possa effettuare una scelta libera. Il libero arbitrio è condizione imprescindibile. Non atterreranno mai nelle nostre piazze a dirci cosa è giusto e cosa sbagliato, va contro la legge cosmica ed il buon senso, è come se lei desse ad uno studente in medicina tutte le risposte di un esame, lo studente lo passerebbe di certo, ma avrebbe poi le competenze per operare con un paziente? Ovviamente no, dobbiamo imparare con i nostri errori pagati sulla nostra pelle».
Iris sembrava davvero affranta, abbattuta, triste. Nei suoi occhi non si scorgeva alcun barlume si speranza, cosa si poteva mai fare contro un nemico tanto potente e senza un aiuto altrettanto potente? Come avendo intercettato i pensieri della ragazza, Leonardi la rassicurò:
«Non disperare Iris. RA è sempre presente a vigilare sull’operato di Orione e a fare in modo che non sconfini oltre il nostro libero arbitrio. Abbiamo tutto ciò che ci serve per fronteggiare il nemico, il controllo sulle nostre azioni e sul nostro ego. Sono fiducioso, questa volta avremo la meglio su quegli esseri, e so a chi rivolgermi per avere sostegno»
«A chi si rivolgerà professore?» chiese la giovane
«Mi rivolgerò a qualcuno che ha esperienza in materia, aspettate e vedrete, ragazze mie».
-17-
Dopo il colloquio con le due donne, il professore e quella che fu divenuta sua moglie, Karla, si misero in contatto con Alex, il fratello del compianto Tom con cui a suo tempo avevano messo in atto gli esperimenti di canalizzazione e conosciuto Ra, nonché, purtroppo, Orione. Si sarebbero incontrati il giorno seguente..
Pur non conoscendo David, Don era molto preoccupato per le sorti del ragazzo. Si sentiva in dovere di fare qualcosa, questa volta doveva riuscirci, non poteva permettere che si portassero via una giovane vita, un’altra volta.
Il professor Leonardi non aveva neppure accennato ad Amanda e ad Iris di aver già avuto a che fare con quell’entità sinistra da cui David era tormentato. E come poteva? Le avrebbe spaventate a morte, e l’ultima cosa di cui avevano bisogno era proprio la paura, o, peggio ancora, il panico. Si muovevano su strade inesplorate, prima di allora non vi era stata alcuna vittoria, ma questo poteva cambiare, doveva cambiare.
Quando Alex vide il professore alla propria porta la sua espressione mutò di colpo. Non aveva bisogno di sentirsi dire da Don del perché si fosse rifatto vivo dopo tanti anni. Quelli di Orione erano tornati.
Pregava che non sarebbe mai arrivato quel momento, ma purtroppo ora doveva, in un modo o nell’altro, farci i conti un’altra volta.
La loro mente e i loro ricordi volarono a quella notte di vent’anni prima, gli incubi da allora non avevano smesso di tormentarlo. Gli occhi terrorizzati ed imploranti di Tomà venivano a trovarlo ogni notte.
Entrato in casa e fatto accomodare, finalmente il professore parlò:
«Sono molto dispiaciuto di piombarti in casa così, dopo tanto tempo. Avrei preferito farne a meno, ma la mia coscienza non me lo ha permesso»
«Che cosa c’entra la sua coscienza professore? -L’ultima parola pronunciata con astio e stizza- Cosa ci fai qui?»la sua voce, prima sicura ed aggressiva finì la frase tremolante e smorzandosi in gola.
«Ti avrei volentieri risparmiato un tuffo in ricordi che preferirai certamente evitare, ma qui c’è in gioco la vita di un ragazzo, ed io non posso stare a guardare senza fare niente. Non me lo perdonerei, non dopo Thomas. Lo devo fare per lui»
«Non ti permettere di tirare in ballo Tomà, Don!» tuonò Alex, mentre sopraggiungeva sua moglie Monica per calmare il marito. Vestita in tuta da ginnastica, una donna piacevole anche senza trucco dai capelli color del rame.
«So che era tuo fratello Alex, ma non credere che non sia stata una terribile perdita anche per me! Eravamo amici io e lui, e per me è stato un tremendo fallimento, personale e professionale, il non riuscire ad evitare ciò che poi è successo»
«Se non fosse stato per i tuoi stupidi esperimenti, mio fratello sarebbe ancora qui!» urlò l’uomo adirato.
«Avevamo ideato insieme il progetto, era un’idea comune, il nostro sogno. Ti sbagli se pensi che fosse soltanto mio, erano anni che ne parlavamo. Certo, non immaginavamo a cosa saremo andati incontro, ma se avessi saputo i pericoli non avrei di certo proseguito. Ma tuo fratello, tuo fratello avrebbe continuato sicuramente!»
«Questo è tutto da vedere»
«Alex, Thomas era un fisico, un ricercatore, uno scienziato! Lui cercava la verità con devozione quasi religiosa, credimi, sarebbe andato fino in fondo alla cosa, pagando come poi ha fatto la vita. E tu permetteresti che qualcun’altro, un ragazzo innocente che tra l’altro non ha firmato alcun consenso informato per nessun esperimento, facesse la fine di tuo fratello? Questo è ingiusto Alex»
Monica, sentite queste parole, si rivolse al marito:
«Tesoro, dovremmo forse almeno ascoltare ciò che ha da dire. Nessuno deve soffrire come hai sofferto tu per quegli esseri immondi. Nessuno. Devono essere messi fuori gioco, se abbiamo una speranza, cogliamola.».
Infine, sconfitto, il marito permise al professore di parlare, di raccontargli la storia di questo giovane tormentato dagli stessi esseri da cui a suo tempo loro erano stati attaccati, della sua ragazza, dei ripetuti ricoveri coatti in psichiatria ed anche dell’ipnosi con la dottoressa Morinelli, dove quei parassiti si erano palesati. Negli sguardi della coppia, ascoltando quella storia, vi si leggeva smarrimento, tristezza, impotenza. Allo stesso tempo però furono portati a sentire il dolore stesso di David entrando in empatia con lui, un povero innocente. Non ebbero bisogno di molto tempo per convincersi ad intervenire, giungendo in soccorso del ragazzo. La loro stessa coscienza scalpitava sentendo vicine le sorti del giovane malcapitato. Avrebbero fatto qualcosa, non avevano altra scelta.
Quando aprì a fatica gli occhi, David vide davanti a sé le sagome sfocate di alcune persone che non riuscì a riconoscere. Si guardò intorno smarrito, finché non trovò lo sguardo di Iris e della Morinelli, due visi amici in mezzo ad un gruppetto di sconosciuti. Subito, come per giustificare il fatto di trovarsi un’ennesima volta in psichiatria, con l’espressione di qualcuno colto con le mani nel sacco, tentò di scusarsi: «Amore mio, perdonami, non so cosa mi sia preso»
«Non ti preoccupare, non c’è nulla che io ti debba perdonare, l’ho capito sai che cosa ti succede, ora l’ho capito davvero. Non sei solo, te lo prometto. Sono stata così stupida a non crederti! Ma troveremo una soluzione, te lo prometto. Guarda chi ti ho portato!» Gli fece salutare la dottoressa e gli presentò i tre sconosciuti presenti al suo capezzale: Alex, Karla ed il professor Don Leonardi, che prese la parola.
«Ciao David, lieto di conoscerti. Ho sentito molto parlare di te. Sai, io so perfettamente che cosa stai vivendo, purtroppo. Io e questi due signori che ti abbiamo portato abbiamo già avuto a che fare, nostro malgrado ed in passato, con gli stessi tuoi problemi, le medesime entità che stanno tormentando te.» Dopo qualche secondo di silenzio, David basito rispose.
«Davvero? Anche voi? Allora non sono pazzo!»
«No, non sei pazzo, per niente. Non più di noi almeno!» e a quelle parole risero tutti. Poi continuò:
«Siamo venuti per dirti che non sei solo, ora ci siamo qui noi e affronteremo assieme questa situazione. Sei stanco e devi riposare, ma domani faremo in modo di farti dimettere. Ti porteremo a casa mia, sul lago Maggiore, disse il professore, vedrai che posto magnifico. Un buon posto per rimettersi. Lì ho molto spazio, e verranno anche i nostri amici, mia moglie Karla ed Alex, un vecchio amico. Di loro ti puoi fidare, puoi andare ad occhi chiusi con loro. Ovviamente porteremo anche la tua bella ragazza. Lì vedremo che cosa possiamo fare per rimettere al proprio posto quei maledetti, sei d’accordo?»
«Certo che sono d’accordo, ma non sarà facile»
«No, non sarà facile, ma noi ce la faremo. Passeremo a prenderti domani, ora riposati e rimettiti».
Il professore e la dottoressa andarono a parlare col primario del reparto sulle dimissioni di David, Alex e Karla salutarono e si congedarono ed Iris si fermò qualche minuto dal suo fidanzato.
«Amore mio perdonami ti prego, perdonami per non averti creduto. Era tutto troppo surreale per me, ma ho sbagliato a mettere in dubbio le tue parole e soprattutto la tua salute mentale»
«Non ti preoccupare piccola, io stesso ho messo in dubbio la mia stessa salute mentale. L’importante è che entrambi abbiamo capito che ciò che mi succede è reale quanto questo letto e quell’armadio, e forse più, cosa che è ancora più inquietante»
«Sì, fa paura, è inutile negarlo. Ma noi ce la faremo, cascasse il mondo noi ce la faremo! Ti amo amore mio, ora riposa» e baciandolo, si congedò anche lei.
Quei pochi giorni trascorsi in quella graziosa casetta sul lago avevano donato a David delle energie che aveva ormai dimenticato di poter avere. Avrebbe voluto che il tempo si fermasse in quel periodo, un mite clima primaverile, la donna che amava al suo fianco, e delle persone interessanti con cui poter condividere momenti di spensieratezza. Il professore aveva espressamente chiesto di poter avere vicino il giovane in quei giorni, per monitorarlo, per assisterlo, ma soprattutto perché si voleva assicurare che restasse a riposo, nel corpo e nella mente, in attesa della vera battaglia che si sarebbe rivelata altrettanto difficile se non più di quanto si aspettasse. Ciò che si apprestavano a fare poi, necessitava di un’armonia tra i partecipanti che non avrebbero potuto avere se non con un buon periodo di conoscenza reciproca, di intesa. David sfruttò quei giorni, oltre che per riposare, per conoscere meglio il professore e sua moglie nonché la storia dell’amico che voleva aiutarlo. Voleva sapere fino a che punto erano stati coinvolti in una situazione simile alla sua, che conclusioni ne avevano tratto, quanto della loro stabilità mentale avevano dovuto sacrificare. Per quanto aveva potuto intravedere, il professor Leonardi nascondeva qualcosa, una ferita, un trauma, non poteva ancora dire. A lui non avevano ancora detto granché, se non che i tre sconosciuti sapevano per esperienza con chi, o meglio, con cosa, avevano a che fare.
Dormivano tutti, alternati i forti sospiri delle cinque persone dislocate nella villetta suonavano un’ambigua ed inquietante aria. Nella stanza degli ospiti, in un stupendo matrimoniale di foggia orientale stavano Iris e David. Il ragazzo, in un sonno profondo, forse un incubo, cominciò a mugolare e a lamentarsi. D’un tratto i suoi occhi e la bocca si spalancarono. Non poteva muovere nessun’altra parte del corpo. Paralisi notturna. Un senso irrefrenabile di panico gli salì dalle viscere fino al petto, premendo con il peso di mille tonnellate, stavano tornando! Una fortissima luce bianco sintetico inondò la camera da letto, lui immobile ed Iris emise solo un flebile lamento. Istantaneamente al fianco del letto si ritrovò tre piccoli esseri di poco più di un metro, forse un metro e venti, quelli che nella cultura popolare sono ormai chiamati “grigi”. Uno di loro teneva una bacchetta in mano, con un’estremità sferica, quasi come una pallina. In maniera del tutto irrazionale il piccoletto usò la sua bacchetta a mo’ di direttore d’orchestra e come per effetto di un incantesimo il corpo di David si levò di trenta centimetri dal letto completamente disteso. Lui non poteva fare niente, se non respirare affannosamente. Sul soffitto si aprì magicamente un’apertura luminosa di un blu elettrico, di circa due metri per uno. David sapeva cosa stava per accadere, ma pregava mentalmente con tutte le sue forze: vi prego, non fatemelo vivere, non voglio ricordare, vi scongiuro!
Nessuno sembrava ascoltare le sue preghiere, ed il corpo continuava a levitare nella direzione dell’apertura. Quando si apprestava ad entrare e ad essere completamente invaso dalla luce blu successe in un istante qualcosa di stranissimo. Vi fu un netto, quasi cinematografico, taglio della pellicola. Si trovò disteso nel suo letto, sveglio, con la sensazione di non ricordare qualcosa di davvero importante ed il corpo completamente a pezzi. Si alzò con le gambe tremolanti per andare in bagno a darsi una sciacquata, ma questi pochi rumori svegliarono Iris.
«Amore mio, tutto ok?»
«No, è successo di nuovo, mi hanno preso un’altra volta»
«No, davvero? Ti hanno fatto tanto male?» Dicendo questa frase si alzò e corse da lui per abbracciarlo. Il suo viso venne accarezzato dal profumo dei capelli di lei, un odore che amava più di ogni cosa al mondo.
«Sono distrutto da capo a piedi -rispose lui- non so come, ma gliela farò pagare».
Iris lo accompagnò in bagno, lui zoppicava leggermente. Accesa la luce Iris restò a bocca aperta, il corpo di lui, che dormiva a petto nudo, era ricoperto di puntini rossi che componevano figure geometriche frattali, come un’ambiguo tatuaggio, su tutto il corpo. Quando fu David a vedersi allo specchio, anche lui restò basito e sbiancò all’istante. Era troppo tardi per svegliare tutti, quindi tornarono a letto e cercarono a fatica di riaddormentarsi. Lui non si riaddormentò più, la sveglia segnava le 03:33, tanto per restare in tema coincidenze. Si girò e rigirò nel letto fino alle sette, quando poté finalmente alzarsi senza disturbare nessuno, ché a quell’ora la casa cominciava a rinascere dal lieto torpore della notte che solo per David era stata ingrata.
«Professore, mi hanno preso anche stanotte, guardi che segni che mi hanno lasciato».
«Incredibile!| È successo anche qui? Non si fanno proprio nessun problema ad entrare a casa mia nonostante…» Non finì la sua frase, così David, incuriosito, lo incalzò.
«Nonostante cosa, professore?»
«Ehm, ascolta David, c’è un modo perché tu possa essere protetto, io e Karla lo abbiamo utilizzato tutti questi anni, e funziona davvero».
«Facciamolo allora, qualsiasi cosa essa sia! Ne ho bisogno!»
«Ogni cosa a suo tempo, non correre, ragazzo. Poi questo non dipende da noi, ma da Ra, l’entità che ci fu d’aiuto e grazie al quale scrivemmo il libro della legge dell’Uno, una trascrizione letterale di tutte quelle ore di canalizzazione che, attraverso Karla, fummo in grado di registrare».
«Avete un libro che spiega tutto nei minimi dettagli?»
«Sì, ma non è stato molto fortunato nelle vendite. In vent’anni avremo venduto nemmeno un centinaio di copie».
«Se c’è un libro, lo voglio leggere, devo sapere con chi o che cosa ho a che fare».
Il professore si alzò dalla sedia sulla quale stava seduto alla sua scrivania ed andò alla libreria dall’altra parte dello studio che aveva in casa. Andò a colpo sicuro nei ripiani alti, ed estrasse un libricino dalla copertina azzurro gialla. Avvicinandosi a David per porgerglielo, il ragazzo poté vedere il titolo stampato in grandi caratteri e dei geroglifici egizi. Il giovane lo prese e sentì un brivido percorrergli la schiena, come un passaggio di energia, sentiva che quello era un momento importante, un momento cardine per la sua vita, di svolta. Era cominciato un nuovo capitolo.
Non era un grosso libro, poco più di duecentocinquanta pagine, e lui era un lettore vorace, lo divorò letteralmente in un paio di giorni, mentre gli altri si godevano il lago, le grigliate e le passeggiate, lui non faceva che leggere. Iris, rispettosa ai limiti della devozione, non lo disturbò mai e stette molto tempo con Amanda, che nel frattempo monitorava a distanza il suo paziente speciale.
Quando ebbe finito il libro tutto fu chiaro per lui, cosa o chi è l’Uno, cosa siamo noi e cosa siamo qui a fare. Tutte le risposte che in migliaia di anni i geni della Terra si erano posti, stavano lì, in un libricino dalla copertina azzurro gialla resa opaca dagli anni. La legge dell’Uno.
Tutto è Uno, non esiste il giusto, non esiste lo sbagliato, gli opposti sono solo nella nostra limitata percezione, i paradossi non esistono. L’Uno è il tutto che si individualizza, in scala e per fare un esempio, in un universo, in una galassia, in una stella, in un pianeta che gira attorno quella stella, in una specie che vive quel pianeta, in una persona, in un organo, una molecola, un’atomo, e così all’infinito, con la Coscienza che ne pervade ogni strato. Il bene, il male? Cazzate, c’è solo l’Uno, solo l’Uno.
David capiva che non doveva odiare Orione, perché lui seguiva la sua natura ed era suo dovere controbilanciare la Confederazione, o meglio, tutto ciò che di altruistico e, licenza poetica, buono, c’è in questo Universo. Orione è il contrario di tutto questo. Il bianco non potrebbe esistere senza il nero e viceversa.
-18-
Per quell’anno, il 1999, la regione aveva messo a disposizione dell’ateneo molti più fondi per la ricerca di tutti gli anni precedenti, quello era un’anno speciale. Il professor Don Leonardi quell’anno avrebbe osato proporre all’università un progetto tanto ambizioso quanto folle, ma aveva seri dubbi che questo venisse accettato. Studi sulla coscienza e sulle interazione delle energie oscure, sconosciute, paranormali. Quindi sì, in quel calderone sarebbero finite tutte quelle parole vietate in università, quali telecinesi, telepatia, sinestesia, e perché no anche canalizzazione, canalizzazione di cosa? Ma di entità naturalmente! Leonardi era intenzionato a sfruttare i fondi pubblici per esplorare tutti quei campi, come anche l’ufologia, che lo appassionavano da sempre.
Era consapevole di quanto fosse folle proporre ad un rispettabile ateneo un tale progetto, della quantità di fondi richiesti per attuarlo, ma lui era un folle e in fondo in fondo un po' ci sperava.
Contro ogni sua più ottimistica aspettativa il progetto venne approvato, quindi cominciò la ricerca dei volontari tramite annunci appesi alle bacheche dell’università.
“Per interessante progetto di ricerca, si ricercano particolari personalità, che abbiano dimestichezza con argomenti quali il soprannaturale e l’occultismo”. Questa era una di quelle frasi che nell’annuncio avrebbero dovuto “attirare” la curiosità dei potenziali partecipanti. Ci fu però solo una manciata di persone, che rispondendo, soddisfacevano le particolari richieste di Leonardi e del suo team, una di queste si chiamava Karla, studentessa in Filosofia che studiava nello stesso stabile di Tom che, coincidenza, se ne era follemente innamorato. Tom era amico d’infanzia di Leonardi nonché fratello di Alex, altro amico di lunga data del professore.
Il gruppo si era così formato: il professor Don Leonardi, Karla Rinaldi e Tom Adeschi ed infine Alex Adeschi.
I primi mesi non successe nulla si particolare, ma dopo l’ennesimo infruttuoso tentativo qualcosa si mosse.
Karla si alzò dal tavolo sul quale facevano sempre la scrittura automatica, i suoi occhi erano velati, non faceva caso a dove o come si muovesse. Come un automa andò sul divano del professore e si sdraiò ad occhi chiusi. Era un po’ pallida, ma per il resto completamente normale. Don e Tom si guardarono l’un l’altro confusi, quando ad un certo punto la donna iniziò a parlare:
«Io sono Ra, è la prima volta che comunico con questo strumento. Noi siamo quelli della legge dell’Uno e veniamo per insegnare/apprendere da voi esseri umani. Abbiamo sentito la vostra chiamata e siamo giunti in risposta».
Leonardi e Tom non seppero cosa dire né rispondere, ma in uno scatto al limite della preveggenza Leonardi accese il registratore. Dopo un breve ed imbarazzante silenzio fu lui ad intervenire:
«Sei lo stesso Ra che era considerato un dio per gli antichi Egizi?»
«Avevamo interagito con quel popolo, come con altri in Mesopotamia ed in sud America, ma purtroppo loro hanno frainteso il nostro messaggio di Unità, Uguaglianza, Parità ed Amore e di servizio al prossimo ed hanno costruito un sistema di potere al cui vertice della piramide regnava il Faraone ed i sacerdoti. Questi amministravano il potere contro ogni nostra indicazione. Una delle primarie distorsioni della legge dell’Uno è proprio quella del libero arbitrio, per questo non avemmo diritto d’intervento»
Don e Thomas non trovarono nulla per commentare un tale ambiguo messaggio, quindi Ra continuò.
«Secondo la nostra esperienza noi dovremmo lavorare secondo uno schema di domanda e risposta, voi chiedete e noi rispondiamo. Non ci è lecito darvi delle risposte non precedentemente chieste, e neanche darvi consigli non richiesti o altro. Questa è l’impostazione del nostro rapporto con voi. Sono anni che cercate goffamente un contatto. Ora noi della Confederazione Intergalattica abbiamo finalmente deciso di rispondere alla vostra chiamata, ma solamente con contatti di tipo telepatico, e non più di tipo fisico. Non commetteremo più gli errori del passato»
Don, che era quello più pratico sulle questioni extraterrestri, incalzo una serie di domande
«Da dove provenite?»
«Ra è un complesso di memoria sociale che viene dalla settima densità del pianeta Venere»
«Ma è impossibile, Venere è un pianeta invivibile!»
«Certo, nella terza densità, ovvero la vostra, l’atmosfera del nostro pianeta non è adatta allo sviluppo di organismi biologici, ma nella nostra settima densità le cose sono diametralmente opposte, lì la vita è fiorente.»
«Quindi mi stai dicendo che ci sono più dimensioni e sono tutte abitate?»
«Tutto il cosmo è abitato, la vita è ovunque. Ora sentiamo che lo strumento, il complesso mente/corpo/spirito che voi chiamate Karla è molto affaticato e stanco. Meglio non sforzare troppo lo strumento o questo diverrebbe facilmente preda di attacchi da parte delle entità oscure, e questo noi non lo vogliamo.»
«Entità oscure? Di cosa sta parlando?»
«Parliamo della nostra controparte negativa, non nel senso attribuito dalle vostre genti, non vi è negativo o positivo nel cosmo, né più né meno, né buono o cattivo. Il vero messaggio che siamo venuti a portarvi è che non vi è separazione, dualità o paradosso. Tutto è uno, ed il male è necessario all’esistenza tanto quanto il bene. Ora dobbiamo proprio andare. Quelli di Orione stanno preparando un attacco. Fate bene e ci risentiremo. Vi lascio nella luce e nella pace dell’Uno Creatore. Andate in pace e riunitevi al potere dell’Uno Creatore. Adonai.»
Thomas e Don rimasero come due statue di sale mentre Karla cominciò a riprendere conoscenza stropicciandosi confusa gli occhi.
«Ma cosa è successo? Non ricordavo di essermi addormentata sul divano dell’ufficio, ma cosa è successo -ripeté- mi sa di essermi ammalata, mi sento così debole».
Fu Don a parlare, a cercare con chissà quali parole di spiegare alla giovane cosa aveva appena fatto.
«Karla, ascolta, tutto quello per cui abbiamo lavorato negli ultimi anni oggi ha finalmente dato i suoi frutti! Una cosa meravigliosa!»
«Ma di cosa diavolo state parlando? Io non ricordo nulla».
«E come potevi, gioia mia, sei caduta pienamente in trance, la tua stessa voce era completamente differente. Era polifonica, come se cinque o sei persone parlassero contemporaneamente ma dalla stessa bocca».
«E cosa avrei detto?»
«Non è poi così importante il cosa, quanto il “chi”. Comunque ho registrato tutto e poi con calma ascolterai. Attraverso di te ha parlato una specie extraterrestre apparentemente benevola, molto benevola».
Karla rimase di sasso, lo sguardo rivolto in un imprecisato punto del pavimento. In qualche modo si era sentita violata. A quel tempo però non poteva neanche immaginare che cosa RA le avrebbe detto in seguito, ovvero che lei stessa, su un altro piano d’esistenza, paragonabile allo stato onirico, aveva dato il suo, possiamo così dire, consenso informato.
Passarono i mesi seguenti ad una o più sedute di trance al giorno, interrogavano Ra su ogni questione potesse incuriosirli, ma egli taceva o dava ambigue risposte quando le domande erano frivole o frutto di leggera curiosità, e che non sottintendevano alcun fine di elevamento spirituale. Il genere di domande cui Ra rispondeva con maggior enfasi, erano quelle delle quali i filosofi di ogni tempo perdevano notti intere in speculazioni ed astrattismi, chi siamo, perché siamo qui, perché la sofferenza, il bene e il male.
Ra ebbe modo di spiegare come l’Universo, o l’Uno, come veniva da lui chiamato, esprimeva l’esistenza. L’Uno non è altro che la totalità dell’esistente ed anche di più, un macrorganismo cosciente che si compone in maniera frattale e si divide in sottogruppi, tutta la creazione è permeata di coscienza, dall’intero Universo fino al più minimo quark. Che l’uomo veda le cose divise in opposti, separate le une dalle altre e da se stesso è la più grande illusione che fosse mai stata propugnata.
Si erano creati due gruppi, il primo, di aristotelica memoria, “esoterico”, ed il secondo, rubando sempre al grande filosofo ellenico una parola, “essoterico”. Il primo composto dai tre e così disposto, Karla la medium, Tom trascriveva a computer in diretta la parola di Ra e Don invece era quello che interagiva direttamente con l’alieno.
Il gruppo essoterico invece richiamava molte più persone, erano una sorta di conferenza dove i tre cercavano di tradurre ad un pubblico più vasto le verità più facilmente assimilabili dall’uomo comune. Per quanto in parte distorta la legge dell’Uno riusciva ad essere filtrata dall’alto verso il basso e, come diceva Ra stesso, se tutto è uno basta che la verità tocchi uno solo perché si faccia intero.
Furono mesi febbrili che rese simbiotico il rapporto tra i tre, senza evidenti scontri di potere come normalmente si vedrebbe con due uomini che desiderano la stessa donna.
Tra Don e Karla cominciò a nascere una particolare amicizia, un’intimità che col tempo si trasformò in una vera e propria relazione, nonostante la differenza di età che intercorreva tra i due, ben dieci anni in sfavore di Don.
Karla era una ragazza dai fianchi larghi ma ben proporzionata, formosa e bella come poche al campus, gli occhi verdi come smeraldi ed i capelli naturalmente lisci e nero corvino facevano innamorare il cinquanta per cento degli uomini che la incontrassero, un buon altro quaranta per cento se la sarebbe portata solo a letto e l’ultimo dieci, beh quelli avranno avuto preferenze “differenti”.
All’orizzonte però nere nubi si stavano avvicinando, Tom era un uomo alto, biondo e possente, a differenza di Don, la cui statura e la cui mole erano molto più ridotte, un bell’uomo senza ombra di dubbio, ma difficilmente si sarebbe potuto decidere se il suo successo con le donne fosse dovuto al suo aspetto esteriore o al suo carisma, che era fuori dal comune. Una calamita vivente che attirava a sé esseri umani di ogni sesso, colore od estrazione sociale.
Tom al contrario era più timido, più introverso, e non così fortunato con le donne, purtroppo per lui, ma era uno che sapeva farsi rispettare e con il quale pochi avrebbero litigato volentieri. Il fato giocherà lui un amaro scherzo, volgendogli completamente le spalle. Non solo il fato, non solo Karla, ma la vita stessa avrebbe guardato altrove. Purtroppo quel destino si sarebbe servito di un lutto per mettere in pratica le sue oscure macchinazioni.
Più le domande divennero esoteriche, e salivano d’importanza, più Karla si ammalava, cominciò con la gola, poi il colon, Ra disse che quelli erano specifici e mirati attacchi al loro gruppo. Quelli di Orione erano totalmente contrari per loro stessa natura. L’Universo, almeno fino all’ottava vibrazione, era diviso in quelli della legge dell’Uno che servivano L’Uno attraverso il servizio al prossimo, poi c’erano quelli del gruppo di Orione, la fazione rivale, che serviva l’Uno attraverso il servizio del sé, attraverso l’egoismo e la prevaricazione insomma.
Entrambi erano corretti e dovevano coesistere, equilibrandosi l’un l’altro, l’uno doveva tenere a bada l’altro ma i veri “cattivi” o i veri “buoni” esistono solo nella mente degli uomini.
Ebbero l’idea di scrivere un libro con tutto quel materiale registrato, un libro che avrebbe aperto le menti e le coscienze di chi fosse stato pronto ad accettarlo.
Fu caratteristica una seduta che fecero in un’assolata giornata di fine primavera. Karla era entrata senza alcuna difficoltà in trance, e la voce polifonica di Ra fece subito capolino nella sala adiacente l’aula dei professori, dove erano soliti meditare e canalizzare. In più occasioni erano stati disturbati da Orione, ma loro non demordevano e, almeno per il momento, resistevano.
In quell’occasione vi fu un’interferenza, qualcosa si insinuò dentro Karla e ne prese possesso, un qualcosa di maligno, di estremamente negativo, erano legione, la Legione di Orione.
«Voi miseri mortali di terza densità, non immaginate lontanamente contro cosa vi state mettendo contro, qualcosa di molto più grande di voi e del vostro inutile pianeta. Voi siete nostri da sempre e mai vi libererete dal nostro giogo».
Tom, il tipico giovane adulto che da ragazzino era il primo che non si tirava indietro dinanzi ad una rissa, una testa calda insomma, si alzò furioso e cominciò a sbraitare contro il corpo di Karla attraverso il quale Orione stava comunicando.
«Tu brutta feccia intergalattica, lascia subito il corpo di quella ragazza, te lo ordino! Fa ciò che ho detto o te ne pentirai!»
Fu fulmineo, un’istante che a Tom sembrò eterno, un dolore lancinante al centro della testa, che lo fece sbiancare e cadere in ginocchio. Le voci attraverso Karla dichiararono: «Hai appena sottoscritto la tua morte».
In sala cadde un silenzio di tomba, Don ed Alex corsero a raccogliere Tom che era in pessime condizioni, come un cencio era pallido, le labbra di solito rosee ora viola. Karla si risvegliò in quell’istante e corse anche lei da Thomas, realmente spaventata. Chiusero in fretta e furia la seduta, accompagnarono a casa il malandato Tom e si divisero.
-19-
Dal giorno in cui Tom ebbe quel confronto con quelli di Orione e ne ricevette quell’immane scarica di dolore, era cambiato, totalmente cambiato. Si era fatto guardingo, aveva il terrore ad uscire di casa, smise di rispondere al telefono ai suoi due collaboratori, o meglio, amici. Questi erano sempre più preoccupati del suo strano atteggiamento, ma quando provavano ad avvicinarvisi, Tomà dava di matto completamente. Farneticava tra sé frasi tipo, torneranno, torneranno, siamo spacciati, siamo la loro creazione e ci distruggeranno senza battere ciglio, siamo spacciati!
Avevano provato invano a consigliargli di entrare in una struttura, ma Tom sentite quelle parole diventava ancora più violento. Non si poteva rinchiudere una persona contro la sua volontà, a meno che questi non recasse danno o pericolo a se stesso o ad altri.
Arrivò infine il giorno in cui i requisiti per un TSO, un trattamento sanitario obbligatorio, ci sarebbero stati tutti.
La madre di Thomas chiamò Don e Karla come ultima spiaggia prima di chiamare un’ambulanza coi carabinieri, cercava di evitare al suo figlio più grande il trauma di un ricovero coatto. In una ventina di minuti Don e Karla furono a casa del loro amico, che si era barricato in camera, dalla quale fuoriuscivano forti colpi sordi e rumore di oggetti frantumati, oltre che le urla di un pazzo che tutto poteva sembrare, fuorché il loro Tomà.
«Tomà, sono Don, apri la porta amico mio, dai su che risolviamo ogni cosa».
«Non risolveremo un cazzo niente! Siamo finiti! Me lo hanno detto loro! Mi parlano nella testa, io so cose che voi nemmeno immaginate. È l’unico modo, l’unico modo Don!»
«Di cosa diavolo stai parlando?»
«Loro sono in procinto di atterrare sulla terra, stermineranno tutti quanti perché vogliono il nostro pianeta. Io sono il prescelto, io e Karla, per creare una nuova umanità, noi saremo gli unici umani che sopravviveranno, ma io non ho intenzione di aiutare quelle bestie che uccideranno chi amo e ci ruberanno tutto.»
«Ti stanno confondendo Tom, lo capisci? Vogliono farti flippare e rompere il nostro cerchio, stanno colpendo l’anello debole della catena, e devi ammettere che ultimamente non stavi bene per niente».
«Loro atterreranno e sarà la fine di tutto, io sono il prescelto ma Karla ama te, è evidente. Non sopporto più questa situazione, io amo Karla!»
Nel frattempo Karla, che era stata in silenzio tutto il tempo, intervenne:
«Thomas, io ti voglio un gran bene e non si sa mai il futuro cosa ci riserverà. Vuoi davvero togliere al futuro la possibilità di dirci come andrà? Apri la porta, ti prego, ti scongiuro apri».
Tom rispose solo qualche breve frase sussurrata di cui i due capirono solo l’ultima parola: addio.
Sentita questa parola Don tentò di abbattere a spallate la porta ma non fece in tempo che un colpo assordante da arma da fuoco raggelò il sangue a chiunque fosse in quella casa e nelle vicinanze. Dopo tre spallate ben piazzate, piangendo, Don entrò finalmente in quella camera e lo spettacolo che i suoi occhi furono costretti a subire lo traumatizzò per tutta la vita. Tomà, il loro Tomà, amico di una vita, un fratello, si era sparato in bocca col fucile da caccia del padre, tutta la sua materia cerebrale era spalmata sulla parete dietro il corpo. Tutta la camera era imbrattata di sangue e pezzetti di materia organica. Molti anni dopo fu trovata nel muro una scheggia dell’osso del cranio di Thomas Adeschi, la cui dipartita avvenne il 12 giugno 1999.
Don entrò in una profonda depressione, si sentiva in qualche modo responsabile di ciò che era accaduto, perlomeno al cinquanta per cento. Lui aveva ideato il progetto, smosso le carte e guidato gli eventi che lli avrebbero portati a quel maledetto 12 giugno. Qualcosa dentro di lui continuava a ripetere: è colpa tua, è tutta colpa tua, se non fosse stato per te, Tomà sarebbe ancora qui. Ma che ci fai tu in vita quando il tuo fraterno amico è morto, fa un piacere al mondo, ammazzati, segui Tomà.
Quel periodo Don perse qualcosa come dieci chili che, su un uomo già di corporatura esile, lo facevano apparire a dir poco scheletrico. Una sera era a casa sua con Karla, pure lei pelle ed ossa, il suo bellissimo corpo, le sue forme e le sue curve erano andate sparendo, e questo ad un solo mese dalla morte del loro amico. Erano seduti sul divano e si stavano dividendo una bottiglia di chardonnay, con la televisione accesa col volume bassissimo, tanto per fare un po’ di compagnia. Non erano ubriachi, solo un poco alticci, quando ad un certo punto, senza alcun preavviso, Karla rovesciò all’indietro gli occhi e cominciò a parlare con quella famigliare voce polifonica, la voce di Ra.
«Sono Ra, vengo nell’Amore e nella Luce dell’Uno Infinito Creatore. Vengo eccezionalmente anche se non chiamato, perché ho importanti informazioni da portare. Noi capiamo il dolore che provate per la perdita del complesso mente/corpo/spirito Thomas, perché ricordiamo quando noi eravamo oltre il velo in terza densità, dove siete voi ora, quanta sofferenza la nostra ignoranza sul dopo-vita comportasse. La morte del vostro amico non è stata naturale, né frutto di un processo mentale endogeno dell’individuo, bensì provocata dall’esterno. Il vostro compagno è morto in conseguenza ad un forte attacco della Legione di Orione. Utilizzano qualsiasi metodo pur di dissuaderci, pur di corrompere o zittire il messaggio della legge dell’Uno. Anche voi siete sotto attacco. Quella che sembra una vostra voce interiore, che colpevolizza, sminuisce, toglie speranza e annebbia le prospettive è frutto dell’attacco telepatico di Orione. Voi dovete comprendere questo e che questi non sono pensieri vostri».
Lo sguardo di Don tuttavia continuava a restare assente ed insicuro, colpevole, le rassicurazioni di Ra non avevano sortito alcun effetto di sorta, se non di confonderlo ancor di più. Rimase come inebetito, in silenzio, lobotomizzato. L’attacco di Orione sembrava essere andato a segno, quindi Ra continuò:
«La prima distorsione della legge dell’Uno, il libero arbitrio, non è stata rispettata dalla Legione di Orione, inoltre non hanno rispettato la quarantena imposta al pianeta Terra entrando nei vostri cieli con i loro mezzi volanti fisici, sottraendo dal proprio letto in ben due occasioni il vostro amico, a questo punto la Confederazione ha preso la decisione di ripulirvi da tutte le scorie di basse energie che Orione vi ha scaricato addosso, e verranno in questo momento eliminati i blocchi eterici posti da Orione nel vostro capo aurico per limitarvi e portarvi verso l’autodistruzione, o il suicidio, come viene chiamato sulla Terra. Creeremo un campo energetico di difesa attorno a voi estremamente potente, perché per portare a termine il compito che vi siete impegnati a concludere, scrivere il libro tratto dalle nostre conversazioni, avrete bisogno di tantissima energia. Per fare in modo che non succeda mai più ciò che ha passato il vostro compagno, riattiveremo in voi un particolare campo di energia che l’Uomo di altri pianeti già possiede, e che possedevate anche voi al tempo di Atlantide, ma che avete perso a causa della vostra tendenza a distruggere. Questo campo è a forma di un tetraedro stella, due tetraedri uno sopra l’altro che compiono una controrotazione a due terzi della velocità della luce. Al tempo degli antichi atlantidei e degli egizi veniva chiamato Merkabah, ed oltre a proteggere i corpi fisico e quelli eterici da attacchi di sorta, può essere utilizzato come un vero e proprio mezzo di trasporto. Non vi daremo però le chiavi per utilizzare il pieno potenziale della Merkabah, potrebbe essere pericolosissimo se cadesse in mani sbagliate. Vi basti sapere che, in caso vi trovaste in situazione di grave pericolo, questa si attiverebbe autonomamente e vi traghetterebbe istantaneamente in un posto sicuro».
Di colpo, nel soggiorno vi fu un rumore come di una pellicola che si strappa, i due vennero inondati da una fortissima luce, i loro corpi emaciati istantaneamente si rimisero in perfetta forma, ritrovando la luce che i loro occhi avevano perso. Dalla luce poi cominciò a materializzarsi attorno ad ognuno di loro la forma geometrica di una specie di stella di David tridimensionale, il tetraedro stella appunto. I colori erano vivissimi, di tonalità sconosciute sulla terra, i viola, i verdi, i blu, i gialli ed i rossi più belli che un essere umano possa ammirare mai su questa terra. Si percepiva poi una fortissima vibrazione data dalla controrotazione dei due triangoli che ognuno aveva attorno al proprio corpo. Don osservava estasiato, dispiaciuto che Karla si stesse perdendo un tale spettacolo. Si accorse però che le “stelle" non erano uguali, ovvero il triangolo superiore dell’uomo, Don, aveva un vertice davanti a lui, quello della donna invece, rimaneva dietro. Nonostante questi controrotassero ai due terzi della velocità della luce, apparivano perfettamente immobili. Si poteva intuire vi fosse movimento dall’acuta vibrazione che si avvertiva, che provocava addirittura una leggera brezza dentro casa. A questo punto Ra continuò:
«Il campo di protezione così come la Merkabah sono stati creati. Saranno visibili solo da anime di alta levatura spirituale e da voi se queste entrassero in funzione attiva. Abbiamo fatto il possibile per mettervi al sicuro, ora gli attacchi di Orione saranno completamente inutili».
Don, rianimato magicamente e pieno di gratitudine ed entusiasmo parlò:
«Non so come potervi ringraziare! Se solo anche Tom avesse avuto la stessa protezione, ora sarebbe ancora tra noi».
«Era scritto che Tom passasse dall’altra parte del velo, questo ha innescato una catena di eventi sulle linee del tempo che voi ora ignorate, ma sono di vitale importanza per la legge dell’Uno e per la comunicazione di essa al maggior numero di persone. Abbiamo un’ultimo regalo per voi, in via del tutto eccezionale. Don, ti preghiamo di prendere il tuo registratore e di attivarlo, vogliamo che anche Karla possa apprezzare questo regalo, essendo per lei quanto per te. Don corse nel cassetto del mobile davanti a sé e prese il registratore e premette il tasto rec.
Per quanto questo possa sembrare impossibile, fu proprio quella voce che usci dalle corde vocali di Karla, e che rimase impressa sul nastro del registratore.
«Ragazzi! Don, Karla, sono io! Tom! Mi dispiace avervi fatto vivere ciò che avete vissuto, ma non ero io, ero controllato, ero soggiogato! Ora però sto bene! Mi stanno aiutando tutti qui, mi fanno delle specie di docce di luce per rigenerare le ferite del corpo astrale, sono una figata! Vi amo ragazzi miei, resterò sempre al vostro fianco, sempre! Ora però dovete continuare le vostre vite, avete un compito! Ricordate? Alex prenderà il mio posto, così è scritto. Ora devo andare, vi devo lasciare, ma sono ad un passo oltre il velo da voi! Nel vostro cuore, sempre! Vi amo, addio, o meglio, arrivederci.
Aver ricevuto in dono da Ra quelle protezioni, ma soprattutto l’aver parlato con Tomà, gli aveva rinvigoriti e rasserenati, poterono così con l’aiuto di Alex ricominciare il lavoro con Ra. Il compito di Alex era leggermente differente rispetto quello di Tom, perché Tom oltre al trascrivere, aiutava nella scelta delle domande e nella loro formulazione. Alex invece trascriveva non cambiando una virgola le registrazioni delle conversazioni con Ra, che infine divennero un vero e proprio libro, un saggio. Finirono il compito e Ra disse che era giunto il momento di andare, che avevamo fatto bene, e che non ci dovevamo preoccupare o rattristire se la distribuzione del libro andava a rilento ed erano pochissime le copie che le persone compravano per sé, nonostante il prezzo irrisorio che arrivava solamente a coprire le spese, anzi forse persero del denaro, ma a loro non importava, perché Ra disse che era stato fatto ciò che si doveva. La palla sarebbe passata ad un’altra generazione per la distribuzione e la comunicazione della legge dell’Uno. A quel tempo, Don e Karla non avrebbero mai e poi mai immaginato che un giorno, vent’anni dopo, avrebbero loro stessi conosciuto ed aiutato il prescelto per la divulgazione, un giovane e problematico scrittore di romanzi, un maudit del ventunesimo secolo, sì, un poeta maledetto contro una legione intera, la Legione di Orione.
-20-
Erano già passate due settimane dalla notte in cui David venne preso. Non vi erano stati particolari avvenimenti od episodi degni di nota. Il gruppo si era stretto attorno al ragazzo che così si sentiva supportato e protetto. Il quelle settimane la dottoressa gli aveva fatto scalare tutti quei farmaci che la clinica psichiatrica gli aveva somministrato. Finalmente la sua terapia si era stabilizzata ad una compressa ogni pasto di olanzapina, un’antipsicotico con qualità di stabilizzatore dell’umore, a bisogno poi, un tranquillante. Non ne aveva però ancora fatto richiesta, se non il giorno dopo il rapimento.
Il gruppo aveva cementato i propri rapporti, era in armonia e c’era già una certa confidenza tra ogni partecipante. Era giunto il momento di passare all’azione, secondo il piano che il professore aveva in mente. Per quella sera, una calda serata di fine giugno, aveva disposto nel suo studio tutto l’occorrente per una canalizzazione, un lettino, degli incensi naturali e delle candele, il registratore ed anche dell’acqua precedentemente caricata di potente energia spirituale da ogni partecipante. Fece entrare i compagni di sventura nello studio allestito a camera di canalizzazione, ed i novizi restarono un po’ perplessi notando su di un leggio vicino il letto la Bibbia, libro che per loro non aveva alcuna valenza. Don notò la perplessità, e spiegò che Karla, essendo cristiana e molto legata al testo sacro, si sentiva più a proprio agio con la bibbia accanto a sé durante la trance. Attorno al lettino, a formare una croce, stavano quattro sedie, ognuna per ogni punto cardinale. Quando ognuno prese posto, senza precedenti accordi, Iris sedette sulla sedia che dava sul nord, ma nessuno dei partecipanti al di fuori di David fece caso ai punti cardinali.
Karla si sdraiò sul lettino e chiuse gli occhi, che vennero da Alex coperti con un panno bianco ben ripiegato.
Don cominciò l’invocazione che non ripeteva da vent’anni:
«Noi, umili servitori della Legge dell’Uno, chiamiamo te, RA, a scendere tra noi comunicando la tua saggezza. Possa tu prendere temporaneamente possesso del corpo di Karla come facesti molti anni or sono. Noi veniamo in pace, nell’amore e nella luce dell’Uno Infinito Creatore».
«Io sono RA, ora sto comunicando».
Ci fu un’attimo di confusione, poiché Karla non era entrata in trance, non aveva pronunciato lei tali parole, si guardarono l’un l’altra confusi, quando RA continuò.
«Io sono RA, nuova è la generazione che serve la legge dell’Uno. Io ora comunico attraverso lo strumento Iris. Per età, energia e per il rapporto che lo lega al prescelto per la divulgazione, riteniamo il complesso mente/corpo/spirito Iris più idoneo alla funzione. Chiedo che i partecipanti alla seduta prendano il corpo dello strumento e lo pongano al posto dell’antico strumento, sul lettino. Prego anche che venga sostituito il libro sacro con un altro, più importante per lo strumento: “Autobiografia di uno yogi” di Paramahansa Yogananda, che è presente nella libreria di questo stesso studio».
Dopo l’iniziale confusione, David ed Alex andarono a raccogliere il corpo di Iris, portandolo di peso sul lettino, facendo spostare Karla, molto sorpresa, sulla sedia posta a nord. Don intanto salì sulla scala a pioli della sua enorme libreria ed andò a prendere quel bel librone arancio che è l’autobiografia di uno yogi, ed andò a sostituirlo all’istante con la bibbia.
«Sono RA, avete fatto molto bene. Mi sento in dovere di ringraziare il vecchio gruppo per tutti i sacrifici e gli anni dedicati al nostro grande progetto, ed anche per aver introdotto il nuovo gruppo, aver passato la fiaccola, perché lo scontro tra Legione di Orione e Confederazione è eterno e sempre dovrà esserci un gruppo di divulgazione sulla Terra della legge dell’Uno»
Don, dopo vent’anni, ricominciò con le domande:
«Siamo lieti di essere stati d’aiuto RA, abbiamo però delle perplessità: c’è questo giovane, David, lui viene pesantemente attaccato dalle entità di Orione, è in balia di qualcosa di molto più grande di lui. Non avevamo mai visto nessuno attaccato con così tanta forza dopo… Thomas».
David cercò con lo sguardo, con espressione interrogativa, lo sguardo di qualcun’altro per avere delucidazioni, chi diavolo era questo Thomas?
RA continuò:
«Ebbene sì, David sta subendo un fortissimo attacco, di una potenza paragonabile a quella che portò Thomas dall’altra parte del velo. La spiegazione di tutto questo è molto semplice. Noi entità di densità superiori non siamo legati ad una sola linea del tempo come lo siete voi, ed Orione sapeva benissimo che David avrebbe portato a termine il compito assegnatogli dal destino e che lui accettò nel periodo tra la sua precedente incarnazione e questa. Per questo hanno fatto di tutto per metterlo fuori gioco, ma si sono ritrovati come qualcuno molto più caparbio di quello che si aspettavano. Un’altra persona al suo posto si sarebbe suicidata, e voi capite il riferimento».
«Sì, ma non capiamo perché David è così importante».
«David è uno e vale quanto tutti voi, la differenza sta nel suo compito e nelle sue abilità. David è uno scrittore di una bravura molto particolare, capace di entrare nell’anima del lettore. La divulgazione della legge dell’Uno come saggio non ha avuto molta fortuna, ma già noi lo sapevamo, ma al tempo non avevamo trovato le condizioni ed un gruppo adatto che sia energeticamente che anche in quanto ad abilità, fosse in grado di fare ciò che David si appresterà a fare nei prossimi giorni. La divulgazione tramite uno strumento d’intrattenimento, in un’opera di narrativa, nascondendo la verità nella finzione con dei rimandi al più puro libro della legge dell’Uno e le sue canalizzazioni sarà certamente più efficace. Vediamo poi uno spiraglio di probabilità/possibilità nella quale il libro venga trasformato in un prodotto audiovisivo, un film od una serie tv. Non possiamo aggiungere altro, se non ché, mettetevi al lavoro!».
«RA ok, aspetta un secondo, David non ha alcuna protezione, non avrebbe diritto anche lui di una protezione come la nostra?»
«Avete perfettamente ragione, questa notte, nel sonno, David sarà bagnato dalla nostra luce con uno scudo dorato e la potentissima, quanto pericolosa Merkabah».
Il ragazzo era un po’ infastidito che si parlasse di lui, si fossero prese decisioni senza il suo consenso, e aveva capito sì e no il cinquanta per cento di quello che usciva con quella voce così ambigua dalla bocca della sua fidanzata.
RA salutò al solito modo i partecipanti, la seduta venne come d’abitudine registrata ed Iris venne svegliata. Ora era giunta l’ora delle spiegazioni, a David e ad Iris, ora dovevano sapere tutta la faccenda.
Durante la cena l’aria era un po’ tesa, David decise però di permettere al gruppo, compreso egli stesso, di mangiare senza seccature, avevano bisogno di forze, e non tirò in ballo questioni di sorta. Qualche ora più tardi però, mentre il professore si godeva il fresco della sera in giardino, sorseggiando un single malt torbato delle isole della Scozia e centellinava un sigaro scuro, un maduro del Nicaragua, venne raggiunto da David che chiese di poter avere anche lui due dita di whisky e di poter parlare col professore. Il professore accettò volentieri di condividere un po’ del suo prezioso whisky col suo giovane amico, sapeva poi che sarebbe stato di molto aiuto per la conversazione un po’ spinosa che avrebbero affrontato. Versò le due dita di whisky nel bicchiere più adatto allo scotch, un Glencairn, a forma di pera per sprigionare tutti gli aromi. Offrì al suo ospite anche uno dei suoi maduro, e lui non fece una piega, accettò di buon grado il sigaro, ma solo dopo che Don ne avesse tranciato il piede col proprio tagliasigari, con le iniziali D&L stampate sopra. Si portò alla bocca il sigaro che accese con un accendino di quelli a fiamma ossidrica, per intenderci, e dalle prime boccate si stupì di quanto possa essere rotondo e cremoso il fumo di un buon sigaro caraibico ben stagionato, altro che droga -pensò- questo è molto meglio!
Avendo passato con stile i preliminari, David decise che era giunto il momento per affondare l’attacco ed affrontare il professore:
«Professore»
«Chiamami Don, per favore»
«Ok, Don, chi sarebbe questo Thomas? E che fine avrebbe fatto? Come mai ho l’impressione che mi nascondete un sacco di cose?»
«Aspetta ragazzo, sì, ci sono delle cose che tu non sai, ma eri in una condizione emotiva e psichica troppo precaria, troppo vulnerabile perché tu avessi potuto accettare la realtà di ciò che successe vent’anni fa. È scritto, tu hai un compito, noi sapevamo di te già all’epoca, e non potevamo permettere di compromettere tutto facendo scappare te o la tua fidanzata a gambe levate a causa di questo».
«Io questo lo capisco, ma dovevate dirmelo! O sono anche io sacrificabile come questo Thomas?»
«Vedi, è proprio questo che volevamo evitare. Comunque era un nostro compagno, ideatore assieme a me di questo progetto che è poi diventato “La legge dell’Uno”. Era il mio miglior amico. Tornando a noi, non è così, non sei per niente sacrificabile, tu sei indispensabile!»
«Sì, fino a quando non scrivo il vostro romanzo, poi non servo più a niente, chi mi difende da quei mostri? Eh?»
«Hai sentito, stanotte riceverai una speciale protezione che anche noi abbiamo ricevuto a suo tempo».
«Vedo quanto è servita al vostro amico».
«Il nostro amico non ha fatto in tempo a riceverla. Noi l’abbiamo avuta proprio in conseguenza alla morte di Tomà. Orione ha violato più di una distorsione della legge dell’Uno per fare ciò che ha fatto a Tom, ed anche a te, per questo allo stesso modo RA ha potuto offrirti questa speciale opportunità. È un po’ come a scacchi, si gioca ad armi pari, e pari opportunità».
«Quindi credi che queste speciali protezioni, come dici tu, mi terranno al sicuro?»
«Questo è certo, ma finché avrai qualcuno da amare, da proteggere, sarai sempre vulnerabile».
«È possibile battere quelli di Orione?»
«No, non è possibile e non è nemmeno desiderabile, l’equilibrio del cosmo collasserebbe, ma possiamo almeno fare in modo di renderci invulnerabili, e cercare di trasmettere il più possibile la legge dell’Uno, cosicché l’umanità possa evolvere e forse, in un futuro non poi così lontano, passare alla quarta densità, la grande promessa dell’età dell’acquario».
«Cosa sarebbe questa quarta densità?»
“Ci sono ottave, così vengono chiamate, di densità, vari stadi che l’Uno percorre attraverso la vita e l’universo, vari passaggi nell’evoluzione dell’individuo. C’è la prima densità, che è quella delle rocce e delle forme vegetali più semplici, quando la vita è allo stato brado, perché anche nelle rocce c’è vita, c’è tutto un pullulare di atomi che danzano in piccolo sassolino. Poi abbiamo la seconda densità, che è quella delle piante più grandi o evolute e degli animali, la vita si è organizzata allo stadio vegetale, e ha imparato a lavorare con l’energia nel processo che voi chiamate fotosintesi clorofilliana. Gli animali invece imparano a gestire l’energia con il nutrimento di vegetali per gli erbivori, ed il mantenersi in vita proteggendosi dai carnivori, per questi ultimi invece c’è la caccia, e per tutti loro la difesa della prole e del branco. Gli esseri più evoluti in seconda densità sono quelli che vivono più a stretto contatto con noi, cani e gatti, che hanno imparato comportamenti quasi umani, e che nelle prossime incarnazioni si reincarneranno in esseri umani veri e propri, anche se di un tipo molto ingenuo e naif. Non certo in persone che vivono in grossi centri urbani, ma magari in uno di quegli individui umani che vivono ancora a stretto contatto con la natura, in tribù e villaggi. Poi c’è la terza densità, che è la nostra, legata al terzo chakra appunto, quello dell’ego, del potere e della volontà. È anche la densità dell’autocoscienza questa, dove impariamo a gestire l’energia in innumerevoli modalità, una di queste è il denaro, che non è altro che una forma di energia. Questa è forse la densità più complessa, qui cresciamo ed impariamo attraverso un ottimo catalizzatore, le emozioni. In terza densità non vi è solo il branco, o la famiglia, ma ci siamo organizzati in paesi, regioni, nazioni, Ci sarà poi la quarta densità che sarà quella dell’amore incondizionato, ma secondo RA non tutti vi accederanno».
«E perché mai?»
«Perché un’esigua parte andrà nella quarta dimensione negativa, ed un altro terzo resterà in terza densità e ripeterà il ciclo».
«In base a cosa vengono fatte queste distinzioni?»
«Le persone che utilizzano almeno il 51% della loro energie per il servizio al prossimo avranno diritto di accedere alla quarta positiva, per la negativa invece è molto più complesso, c’è bisogno almeno del 95% di servizio al sé, ovvero l’egoismo, per poter vedersi aprire le porte della quarta dimensione negativa. La maggioranza delle persone però non raggiungerà questi estremi richiesti per quello che RA chiama “raccolto”, e ciò che noi chiamiamo ascensione.
David era completamente assorto nel discorso del professore, e nel frattempo stava gustandosi il suo scotch ricco di sfumature , affumicate, ma anche dolci, a tratti salate come il mare, e si abbinava alla perfezione con la rotondità di quel grosso sigaro scuro del Nicaragua.
Non era sicuro di aver capito bene tutta quanta la faccenda delle densità, stordito com’era dal whisky, ma avrebbe avuto tempo per imparare e memorizzare tutta quella mole di informazioni, in fondo doveva scrivere un libro, no?
«A proposito del libro, cosa è questa storia che io dovrei scriverlo, come mai io, e perché è così importante?»
«È di vitale importanza David, tu hai una grandissima responsabilità, ma allo stesso tempo è un onore per te svolgere un compito così importante. Il nostro compito è quello di diffondere la Legge dell’Uno, pensavamo di aver fallito vent’anni fa per le misere copie che siamo riusciti a vendere del nostro saggio con le canalizzazioni, ma ora capisco che quella fu solamente una fase preparatoria a questa, perché potesse arrivare a te questo libro e noi per formarti, perché le tue abilità di scrittore sono inestimabili, e faranno sì che le parole della Legge entrino nei cuori di moltissime persone, oltre che averle emozionate col tuo romanzo, potrai gioire di aver dato l’opportunità a molte persone di potersi liberare dal giogo di Orione, che ci vuole tutti contro tutti, egoisti e falsi, pronti a tutto per raggiungere i propri scopi. Fidati di me, mio caro e giovane amico, sarà un avventura fantastica.
-21-
Quella notte Iris e David si addormentarono abbracciati. Avevano parlato fino a tardi, emozionati come erano per la protezione che David avrebbe ricevuto. Si chiesero però come mai RA non aveva concesso la protezione anche ad Iris, considerato che lei era il nuovo canale; si ripromisero alla seduta seguente di chiedere a quella sorgente aliena lo stesso favore per la ragazza.
Nella stanza da letto regnava silenzio assoluto, se non per l’alternarsi del respiro dei due. D’un tratto due piccole lucine azzurre comparirono sopra i corpi dei ragazzi. Quella piccole luci, ognuna all’altezza del cuore dei due, cominciarono ad espandersi, a divenire più grandi e lucenti, dorate, fino a quando, intersecandosi per la vicinanza, coprirono completamente ognuna il corpo di ogni ragazzo. RA, in silenzio, aveva ascoltato le preghiere della giovane coppia, e aveva fornito dello scudo dorato entrambi. Dopodiché, raggiunto l’apice della luminosità, le bolle di luce sparirono, il buio rimase per qualche secondo, poi un’enorme stella si materializzò attorno a David, il suo fisico cambiò all’istante, prese i chili che gli mancavano, l’accenno di occhiaie che aveva sparì, e così il colorito della pelle divenne più roseo, più abbronzato anche. Tutto il processo durò si e no trenta secondi, ed una volta conclusosi, anche attorno ad Iris si formò la Merkabah, pronta e completa. Oramai erano ufficialmente sotto la protezione della Confederazione Intergalattica.
L’indomani, a colazione, David ed Iris erano raggianti, i loro compagni capirono a colpo d’occhio che lo scudo e la Merkabah erano stati dati anche ad Iris, lo videro dalla sua bellezza, dalla pelle, dal suo profumo, sembrava sbocciata come un bocciolo di rosa a primavera. Anche David poi aveva preso peso e massa muscolare, non un cambiamento drastico, ma percettibile al primo sguardo.
«Vi trovo particolarmente bene questa mattina, avete avuto piacevoli visite questa notte?» Era entrato in cucina il professore mentre i due facevano colazione.
«Ho paura di sì -rispose David- ma noi non ci siamo accorti di nulla, dormivamo profondamente».
«Ma ti sei guardato allo specchio? Sembra che hai fatto un anno di fitness e vissuto in un centro benessere! E la tua fidanzata ancora meglio -e rivolgendosi alla ragazza- Iris, sei stupenda!»
Iris arrossì e ringraziò Don, sinceramente imbarazzata.
«Ragazzo mio, volevo dirti che io ci sono per qualsiasi cosa, se hai delle domande per il libro, se non stai bene»
«Per quello c’è la dottoressa Morinelli, si è presa un mese di ferie per seguire me!»
«Qualcuno ha forse parlato di me?» Amanda era arrivata sudata e col fiatone, vestita da jogging, appena tornata da una corsa attorno al lago.
«Sì parlavo di lei dottoressa -rispose David- mi è mancata lo sa? Non l’ho vista molto di recente, che fine aveva fatto?»
«Diciamo che Alex, con molto spirito di sacrificio, si è prodigato per spiegarmi la Legge dell’Uno, ecco sì, possiamo dire così».
In quell’istante arrivò Alex nell’ormai affollata cucina e prese la dottoressa dai fianchi e le stampò un bacio sulle labbra.
«Dai cretino, sono tutta sudata».
«Ho sentito qualcuno nominare il mio nome e sono venuto. E comunque a me piaceresti anche ricoperta di fango, a pensarci bene forse anche di più»
Risero tutti al vedere quella nuovissima coppia stuzzicarsi a quella maniera.
David, interrotto dalla dottoressa e dalla coppia, continuò il discorso con Don.
«Professore»
«Chiamami Don!»
«Ok, scusa, Don. Oggi avevo intenzione di cominciare il romanzo, mi sento davvero in forma, ho bisogno del mio portatile».
«Problema risolto, te lo abbiamo fatto portare, non devi ché scrivere la prima stesura, poi tutti insieme ti aiuteremo per la correzione delle bozze e la riscrittura. Abbiamo già i nostri contatti per la pubblicazione, quindi cerca di sorprenderli, affinché ti pubblichino, oppure dovremmo farlo di tasca nostra».
«Il colmo sarebbe che venissi pubblicato dalla Speltrinelli»
«Beh, se fai colpo sarà certamente così -rispose il professore- perché il mio contatto lavora per loro. Dipende dal lavoro che farà il nostro agente».
«Oh, siamo a cavallo allora! Bene ragazzi, portatemi il computer, io vado in camera a cominciare a lavorare».
Preso il suo prezioso pc se ne andò alla scrivania della camera degli ospiti, con le cuffiette nelle orecchie che gli sparavano deep house, a suo avviso la musica migliore da ascoltare mentre si scrive, a meno che non si scriva di scene truci o di fantascienza, in quel caso metteva delle playlist di colonne sonore, la migliore fino a quel momento era quella di Mr Robot, di Mac Quayle, oppure soundtracks di videogiochi.
Aveva preparato la schermata del Mac con due pagine di Google aperte, una già pronta per la ricerca dei sinonimi, e l’altra per le ricerche che doveva occasionalmente fare. Poi ovviamente, per la musica, YouTube.
Senza avere nulla di specifico in mente, senza uno schema, una scaletta o qualcosa, David si buttò anima e corpo nella scrittura del romanzo, scriveva febbrilmente in uno stato di grazia, dimenticava di bere, di mangiare, si alzava solo per andare in bagno. Quasi lo dovevano costringere a nutrirsi, non si alzava per andare a tavola, quindi Iris gli portava il piatto in camera, e lui se lo trangugiava distrattamente durante la scrittura. Saranno state una decina al giorno le ore che dedicava al libro, non aveva nient’altro che potesse attirare la sua attenzione, e anche l’avesse avuto, niente avrebbe potuto distrarlo. Il suo modo di scrivere, a detta di Iris, l’unica che poteva leggere le bozze, era sì psicotico per la velocità di stesura, ma bellissimo, coinvolgente, ti apriva dentro.
Una notte, esausto, si addormentò vestito sul letto. Iris si era addormentata già da un paio d’ore. Per l’ennesima volta la luce bianco bluastra di quei bastardi inondò la stanza. David venne prelevato. Quando si svegliò si trovò sul solito lettino metallico, legati mani e piedi. Un grigio si avvicinò a lui con quella che assomigliava ad una piccola mola a disco, andava nella direzione del suo cranio, questa volta era finito, pensò. Si sentì una forte vibrazione e si cominciò ad intravedere la controrotazione dei due tetraedri, la Merkabah! L’alieno si spaventò ed indietreggiò, istantaneamente David si ritrovò nel suo letto, la Merkabah lo aveva tratto in salvo, allora funziona!
Il giorno seguente raccontò a Don che avevano attentato alla sua vita, erano arrivati a tanto, e non in astrale, ma nella realtà! Don rispose che era certo che loro volessero a tutti i costi evitare la pubblicazione di quel libro, disse che sarebbe stato un duro colpo da incassare per Orione. David in cuor suo aveva paura, ma aveva visto il funzionamento della Merkabah e si era un po’ rasserenato. Rifletteva tra sé e sé, Orione e la Confederazione dovevano in qualche modo coesistere, l’Universo era poggiato su questa contrapposizione cosmica, doveva andare così, ma allora, perché farsi la guerra, perché volerlo eliminare, perché combattere una guerra che nessuno vincerà mai? Il giovane aveva preso una decisione, quella notte, sarebbe stato lui ad andare da loro e non il contrario, come sempre. Non lo avrebbe certamente fatto nella realtà fisica, è ovvio, ma in astrale, dato che aveva questa potenzialità voleva sfruttare l’opportunità di parlare con il loro capo.
Alla sera, una volta coricatisi, David fece la oramai tradizionale meditazione per uscire dal corpo. Tutto andò come da manuale, ed in una ventina di minuti riuscì a sollevarsi dal suo corpo fisico, separandosi completamente. Una volta fuori urlò -portami dal loro capo!-. Non sapeva bene a chi avesse fatto questa richiesta, se al suo sé superiore, al subconscio o ad uno spirito guida, fatto sta che si ritrovò trainato a velocità folli, tanto da non riconoscere nulla dello spazio accanto a sé. Si ritrovò seduto accovacciato al centro di una sala esagonale, una sala grande e luminosissima, ad ogni angolo dell’esagono stava in piedi un alieno grigio ma del tipo alto quasi due metri. Proprio di fronte a lui, sul lato della forma geometrica, stava un trono con sopra seduto quello che doveva essere il capo, identico a tutti gli altri, se non per dei grossi bracciali in quello che poteva sembrare platino ai polsi.
La comunicazione avvenne solamente per via mentale, non avendo gli alieni alcun apparato vocale.
«Cosa sei venuto a fare qui, umano? Perché non ci hai portato anche il corpo, avevi forse paura?»
«Sono venuto per parlare con lei, avere un confronto».
«E chi ti dice che io sarei disposto ad avere un confronto con un misero umano, il bacillo di un virus che va distruggendo il corpo che lo ospita, e che non è nemmeno in grado di accordarsi ai ritmi e alle necessità naturali del proprio pianeta»
«Vedo che avete molto a cuore il nostro pianeta»
«Non solo il vostro, ma l’intero Universo. È vita, lo capisci povero stolto?»
«Non mi sottovaluti, noi umani non siamo tutti uguali».
«Neanche noi lo siamo, io sono il regnante della Legione d’Orione di quarta densità negativa, e qui in quarta negativa siamo ancora degli individui, non siamo ancora ai livelli del vostro amico RA, un complesso di memoria collettivo di settima densità. Abbiamo però anche noi parti della Legione in queste densità».
«Mi scusi, sua maestà, ma in ottava densità ci riuniremo tutti quanti, positiva e negativa in una sola densità, senza alcun opposto, nessun paradosso, non vedo perché dobbiamo continuare a farci la guerra, non possiamo solamente coesistere?»
«Non lo vedi umano che la tua ignoranza non fa che farmi perdere tempo prezioso?»
«Che cosa intende, Vostra Altezza?»
«Che cosa fanno un umano maschio ed un umano femmina se si accoppiano?»
«Un bambino»
«E se prendo il polo positivo di una carica elettrica e lo pongo al polo negativo, che cosa otterrò?»
«Una scarica elettrica»
«Energia, piccolo uomo, Energia! Tutto l’Universo si basa sul contrapporsi di due polarità, la vita stessa, l’anima e lo spirito, tutto è figlio dell’interazione degli opposti! Ma in realtà non esiste più e non esiste meno. Esiste UNO. Io sono la parte di te di cui tu ancora non hai preso consapevolezza, è difficile da credere, ma è così. Noi stiamo solo recitando delle parti, o meglio, l’Uno recita delle parti incarnandosi in me e te, e ci fa fare la guerra, perché se non vi fosse la morte come potrebbe esistere la vita? In una sola decade il vostro pianeta, senza morte, collasserebbe, e sarebbe solo odio e violenza. Questo è l’ordine naturale, e noi dobbiamo attenerci a questo».
«E quindi continuare a farci la guerra?»
«Non è piacevole, ma necessario. Necessario è che io in questa mia quarta densità negativa sottometta con forza, violenza, plagio, con ogni mezzo, chi ho sotto di me, chiunque, e qualunque individuo di questa densità deve fare lo stesso. Per il momento io sono il più difficile da sottomettere. Ma la vita, nelle densità negative è sempre più difficile, sempre all’erta, sempre combattimenti, soprusi e prevaricazioni. È per questo che mano a mano che si sale nelle dimensioni, sempre meno sono in negativa e sempre più in positiva, perché ricorda piccolo umano: è il male che ti insegna il bene, è così da sempre».
David restò esterrefatto per la saggezza del regnante della legione di Orione di quarta negativa, ma non poteva esimersi dal chiedere:
«Non mi lascerete mai in pace?»
«Continueremo fino a quando ti abbiamo messo fuori gioco oppure ucciso».
«Staremo a vedere chi avrà successo».
«Quel libro che stai scrivendo, se vuoi salva la vita smetti di scriverlo, ti potremmo rendere ricco e famoso se solo accettasti certe nostre condizioni».
«Non mi posso vendere così, è una questione di principio».
Ognuno restò sulle proprie posizioni, e David si congedò richiamandosi al corpo. Avrebbe lottato con le unghie e con i denti per salvare la sua vita e quella di chi amava.
Il giorno seguente David era con Iris sulle rive del fiume, in un luogo isolato, stava calando la sera ed il paesaggio era bellissimo, sarebbe stato da incorniciare. Ad un certo punto sentirono una bassa vibrazione diventare sempre più forte, avvicinarsi sempre di più, fintantoché una massa nera enorme fu sopra di loro, uno di quei triangoli neri, una diavoleria tecnologica aliena. Le tre luci agli apici del triangolo si fecero soffuse, quando una posta al centro aumentò considerevolmente d’intensità, e sparò un raggio di luce verde che inondò la coppia. Sentirono l’aria farsi elettrostatica, ed un senso di orticaria in tutto il corpo dovuto alle radiazioni. David urlò:
«Andatevene via! Basta!»
Non sembrò sortire alcun effetto, i ragazzi cominciarono a levitare e ad essere inglobati dalla macchina che vibrava e dava un senso di vero e proprio essere vivente. Entrarono da un portellone inferiore e si ritrovarono seduti ognuno su di una poltrona simile a quella del dentista. Un gruppo di una mezza dozzina di piccoletti si avvicinò, tra loro stava un grigio alto, il leader del gruppo, che parlò nella testa dei due giovani:
«Che cosa avreste intenzione di scrivere nel libro? Poveri illusi, ma che pensate di fare voi, cinque miseri umani contro il più grande impero che ogni universo abbia mai visto».
«Hai dimenticato la confederazione dei pianeti -rispose David- mio carissimo amico».
«Loro sono nostri pari, ma non hanno la decisione giusta per sottometterci, si fanno troppi scrupoli, seguono troppo le regole»
«Forse, a non seguirle, non è che avete fatto un grande affare. Grazie a questo io ed Iris abbiamo una Merkabah attiva, e tu sai cosa significa, non è vero?»
Dopo questa comunicazione telepatica vi fu un’espressione quasi spaventata dell’alieno alto.
«Che cosa? Quindi fu per la Merkabah che ti salvasti l’ultima volta?»
«Andò esattamente così. Hai le “palle” di metterti contro un’energia tanto potente?»
In fretta e furia l’alieno alto comunicò ai sottoposti mentalmente rilasciate i prigionieri all’istante, torniamo alla base, abbandonare missione, troppo pericoloso.
In nemmeno un paio di secondi David ed Iris si trovarono seduti sui ciottoli della spiaggia, rivolti verso il lago, anche questa volta erano salvi, era bastato solo nominare la Merkabah per essere liberati. Non potevano immaginare la potenza di quello strumento divino, forse, d’ora in poi li avrebbero lasciati in pace, erano intoccabili, ma una frase tornò alla mente del giovane, quando venne ammonito dal professore: non sarai mai invulnerabile fino a quando hai qualcuno da amare. Gli si gelò il sangue nelle vene. Se solo avessero sfiorato sua madre od il fratello, che anche se non aveva granché di rapporto ci teneva tantissimo. Pensò di chiedere al professore, per quel periodo critico, di poter far venire sua madre, il fratello, ed il fratello di Iris lì da lui, la casa era enorme, si sarebbero potuti stringere un po’, ma almeno sarebbero stati al sicuro.
Don non batté ciglio e capì la richiesta del ragazzo, l’indomani i tre famigliari furono sotto lo stesso tetto dei divulgatori della legge dell’Uno, chissà che non avrebbero potuto anche dare una mano. Fu la dottoressa Amanda Morinelli che si prese l’onere di spiegare, senza troppi particolari, la situazione e perché erano stati portati lì. Tutti e tre entrarono in modalità shock silenzioso, e ci vollero dei giorni perché vi si acclimatassero. David ora era quasi felice, con la famiglia vicino, ora sì che era invulnerabile, chi altro avrebbero potuto toccargli?
-22-
Michael, dopo che a David gli si era flippato il cervello a causa delle droghe, era rimasto particolarmente solo ed era triste come raramente era stato. Si era buttato con ancora più entusiasmo nelle droghe, c’era rimasto sotto di brutto, fumava crack in continuazione di giorno, alla sera poi cominciava con la ketamina inframuscolo. Quello era davvero un periodo no.
Per distrarsi un po’ aveva ricominciato ad andare ai rave party tra Torino, Casale Monferrato e Milano, più in là non andava, ma anziché ballare passava tutto il tempo a basare la coca e fumare le pietre di crack, era dimagrito di almeno dieci chili. Aveva nella testa degli strani pensieri ‘tu non servi a niente, a chi importa se muori? Non verrebbe nessuno al tuo funerale. Non lo vedi che non frega niente a nessuno se ti avveleni di questa merda? Nessuno che si avvicina a chiederti come stai, gli unici che si avvicinano ti chiedono il bicarbonato, l’ammoniaca o la stagnola. La chiami vita tu questa?’
Non era mai stato un tipo depresso, ma quella di quel periodo poteva certamente essere chiamata così, depressione. Eppure non la sentiva come una cosa propria. Non riconosceva come sua quella vocina bastarda che gli sussurrava le peggio cose nell’orecchio. ‘Ammazzati, sei un rifiuto umano, mai nessuno ti ha voluto, forse solo quel pazzo schizofrenico di David, ma abbiamo visto che fine ha fatto’. Nonostante alla sera si strafacesse di ketamina di ottima qualità dall’india, era tormentato da incubi e bad trip, dei mostri lo rincorrevano. Cazzo, a tratti pensava che allora David aveva ragione, esistevano davvero quegli alieni del cazzo, o forse erano solo frutto della sua immaginazione. Non riusciva più a distinguere la realtà dalla finzione, quanto avrebbe voluto il suo amico al suo fianco, gli avrebbe detto che finalmente lo comprendeva, che fosse malattia mentale o rapimento alieno, lui capiva cosa aveva passato David.
Ci fu un momento in cui la coca fumata era stata troppa, i bad trip di ketamina non lo lasciavano nemmeno per un giorno, la sua tossicodipendenza era fuori controllo e quella voce, quella voce nella testa: ‘poni fine a questo strazio, nessuno si accorgerà della tua assenza, fa un piacere al mondo’. In pieno bad trip con gli occhi chiusi a cercare un po’ di ordine, di calma, quando era invece in preda al panico più nero. Aprì gli occhi, stava ai bordi di una ferrovia, un treno alta velocità stava arrivando fischiando. Quel fischio era troppo, era insopportabile per la sensibilità dei suoi sensi acuiti dalle droghe, dalle allucinazioni, e quella voce estranea che continuava ‘poni fine a questa merda, non vali niente, togliti di mezzo, un passo avanti, fa solo un passo e sarai libero per sempre, un eterno silenzio di beatitudine’.
Ma lui voleva vivere, aveva una famiglia che amava, non aveva intenzione di fargli questo enorme torto, come sarebbe cresciuta la sorellina con un tale trauma? Il treno stava per arrivare: ‘un solo passo, un solo passo’, la tensione unita al frastuono del treno ed al suo fischio divennero insostenibili, ‘un solo passo e sarai libero per sempre, un misero e semplice passo, come ne hai fatti tanti ed il dolore sparirà, un solo passo’.
Fu un solo passo quello che fece e tutto fu finito. L’ultimo passo della sua vita.
David si svegliò di soprassalto, l’incubo da cui si era finalmente svegliato lo aveva tremendamente scosso, sembrava così reale! Michael, da quant’è che non sentiva più Michael? Neanche lo ricordava più, era stato troppo male negli ultimi tempi, era tutto così confuso, d’un tratto gli arrivò una voce chiara e nitida nella testa: ‘finché avrai qualcuno da amare, non sarai mai completamente al sicuro, ascolta il professore. Ma il tuo amico Michael? Gli abbiamo portato i tuoi saluti’.
David fece un salto giù dal letto, era in lacrime e sconvolto, Iris si svegliò e cercò subito di capire da dove venisse la disperazione del suo ragazzo.
«Amore mio, ma che succede? Perché piangi? Calmati, tutto si aggiusterà»
«Nulla potrà mai aggiustarsi! Nulla tornerà come prima, mi hanno ammazzato Michael! Me lo hanno ammazzato, questi bastardi!»
«Ma che dici, come fai a saperlo, stavi dormendo!»
«Iris, io l’ho visto! E non era un sogno! Una voce poi quando ero sveglio mi ha ricordato l’ammonimento del professore, che fin quando avremo qualcuno da amare, mai saremo al sicuro, e mi ha detto che loro hanno portato i miei saluti a Michael». Nel frattempo prese il cellulare e provò a telefonargli, senza nemmeno squillare subito la voce registrata diceva che non era raggiungibile, cosa che non succedeva quasi mai con lui, fissato com’era con gli smartphone.
«È morto per colpa mia! Solo per colpa mia». Cadde in ginocchio con la testa tra le mani, singhiozzando come un bambino, e negli occhi gli scorrevano le immagini di tutti quei momenti passati assieme, dalla prima volta in quel rave party, all’ultimo momento in cui lo vide. Era disperato. Iris, per quanto ancora un po’ scettica sulla veridicità della visione del suo uomo, non poteva che restare in rispettoso silenzio, abbracciandolo e standogli vicino. Lo amava, lo amava più di ogni altra cosa sulla faccia della terra, a parte suo fratello.
L’indomani ricevettero sul telefono di David la telefonata della madre del suo migliore amico che, disperata, gli comunicava che Michael si era suicidato, si era buttato sotto un treno notturno dell’alta velocità. La donna fece cadere il telefono trafitta da un lancinante dolore per l’ennesima realizzazione della morte del figlio. Cadde anche la chiamata. Si sarebbero comunque rivisti al funerale, Michael doveva andarci, il professore però gli disse che non era saggio andarci, era pericoloso, perché avrebbero fatto di tutto per eliminarlo, ora che sapevano della Merkabah, erano finiti i giochi dei rapimenti, dello spaventare, dell’annichilire. Ora si sarebbe fatto sul serio.
Non poteva nemmeno andare al funerale, ma che vita era quella? Relegato in una gabbia dorata affacciata su di un lago. Il tempo scorreva ormai lentissimo, all’infuori delle ore passate a scrivere, l’unico suo svago, l’unico modo che aveva per distrarsi un poco.
«Io vado in camera a scrivere, almeno smetterò di pensare, o va a finire che faccio la stessa fine di Michael».
«Non lo dire neanche per scherzo» lo redarguì Iris.
Salì le scale e si diresse verso la camera dove soggiornava con Iris, e si ributtò a capofitto nella stesura del suo libro. C’era come un filo diretto col suo inconscio, non doveva “pensare” alle parole da scrivere, esse uscivano da sole, servendosi delle dita di David per poter venire alla luce, a quel ritmo, gli sarebbero bastate ancora qualche settimana per concludere la prima stesura di un manoscritto di duecentocinquanta pagine, o cartelle, come si dice in gergo. Doveva accorciare il più possibile i tempi, avrebbe potuto sennò non vedere la stampa del suo libro, eliminato, resettato, tolto dal mondo da quelle bestie feroci della Legione d’Orione.
‘RA ti prego, aiutami tu, Tom, anche se non ti ho conosciuto, giungi in mio soccorso, ho bisogno delle capacità di tre uomini per fare il lavoro che ci si aspetta da me, io sono solo uno strumento, ma il mondo ha bisogno di questo libro’.
Quel pomeriggio, Iris ed Amanda dovettero andare in città per fare scorta di sigarette e per fare la spesa, erano serene, Iris aveva la Merkabah ed Amanda era per nulla essenziale per il progetto. Presero il SUV della Morinelli, ed una volta comprate Lucky Strike e Marlboro per tutti e spesa fatta al supermercato, caricarono tutto in auto e partirono in direzione di casa, che era in un posticino isolato posto tra il lago ed un boschetto. Si erano fatte le sette di sera, ma era ancora giorno essendo ormai estate, ed il SUV di ultima generazione di Amanda si spense di colpo e la macchina si fermò, quasi come se frenasse da sola. Le due donne si guardarono spaventate, erano in un posto isolato in mezzo alla vegetazione, e stavano cominciando a capire che cosa stesse succedendo, gli alieni, erano tornati.
Le portiere dell’auto si aprirono senza che nessuno fece niente, e comparirono dal nulla tre esseri dalla testa enorme e grandi occhi a mandorla che arrivavano fino a quasi dietro la testa. L’occhio aveva come una pellicola che lo ricopriva, sul quale si intravedeva un reticolo a nido d’ape, e dava l’impressione di essere una lente, non una componente naturale dell’occhio.
La solita voce metallica che rimbombava nella testa parlò alle due donne:
«Scendete, non vi verrà fatto alcun male»
Al ché Iris rispose:
«E noi ci dovremmo fidare di voi?»
«Signorina, penso che non avete altra scelta».
Così le due scesero dall’auto e si accorsero come il tempo sembrava essersi fermato in un costante fermo immagine, non tirava un filo di vento, gli alberi, le foglie, gli insetti in aria, tutto era immobile. Proprio sopra l’auto della Morinelli, ad una decina di metri, stazionava il triangolo nero. Furono tutti, umani ed alieni, inondati dalla luce verde che li trasportò sul mezzo volante, lì trovarono il leader di quel particolare attrezzo volante, avevano imparato che l’equipaggio di ogni triangolo era composto da tre piccoletti più uno alto due metri, il boss.
L’alieno alto parlò alle donne, alla solita maniera degli alieni, telepaticamente:
«Noi siamo quelli della Legione di Orione, vi abbiamo sottratto alla vostra vita quotidiana per ammonirvi, giovani esemplari femminili di essere umano. Se il vostro gruppo continuerà nella produzione di quel materiale che voi chiamate libro o romanzo, e tenterà di diffonderlo, noi non daremo tregua a voi e ai vostri cari per generazioni. Vi estirperemo dalla vita, anche a costo di pagare chissà quale sanzione per aver contravvenuto la Legge dell’Uno».
Iris rispose:
«Sembrate abbastanza limitati per essere esseri di dimensioni superiori, se ancora vi comportate come stupidi umani che prendono le cose sul personale»
«Fondamentalmente, noi siamo solo in quarta densità negativa, è la quinta densità quella della saggezza»
«E credo vi manchi ancora molta strada».
«Pensi alla sua di strada del ritorno verso l’Uno, misero essere di terza densità. Sono già migliaia dei vostri anni che noi siamo stati raccolti alla quarta negativa».
«Il tempo è relativo, arriveremo a superarvi, ma su quella positiva, vi lasceremo volentieri i nostri Hitler, Stalin, Gengis Khan. Noi penseremo a ripulirci l’anima nel servizio del prossimo che più si addice al nostro carattere».
«Ciò che doveva esser comunicato è stato comunicato. Tornate alle vostre miserabili vite, e ricordate bene l’ammonimento».
Si ritrovarono, le due donne, istantaneamente nell’auto della Morinelli accesa ed in movimento, sulla strada verso casa. Erano spaventate, erano terrorizzate al pensiero della minaccia appena ricevuta. Sarebbe stato in grado RA di proteggerli da tutto questo? Iris decise che avrebbe proposto al una nuova seduta per contattare la loro guida della Confederazione. Dovevano sapere quanto in realtà stavano rischiando.
-23-
«Io sono Ra, umile messaggero della legge dell’Uno, sto comunicando. Siamo a conoscenza dell’incontro del nostro strumento Iris e del complesso mente/corpo/spirito Amanda Morinelli con un ricognitore della Legione di Orione, e siamo consapevoli delle minacce ricevute dal vostro gruppo. Sapevamo fin dal principio vi sarebbero stati dei rischi in questa missione, che avremmo potuto avere delle perdite, ma la minaccia di Orione è completamente inattuabile. Quantisticamente parlando, loro non hanno il potenziale per violare questa distorsione della Legge dell’Uno, ed anche se l’avessero e avessero strumenti di cui noi non siamo a conoscenza, se il vostro gruppo riuscirà a rendere reale ciò che noi intravediamo come probabilità/possibilità, la capacità quantica della Terra che potrà raggiungere, una volta innescata la reazione a catena dalla pubblicazione del romanzo, non permetterà a quelli di Orione di intervenire. Vietato è l’intervento diretto, è possibile solamente l’influenza esterna con plagi, contatti telepatici ed attacchi mentali»
«Ma con noi sono intervenuti eccome!» Gridò David, per nulla convinto delle rassicurazioni di RA.
«Se dovessero violare ancora un paio di volte la legge della non interferenza diretta, avrebbero la più grande punizione si possa avere in questo universo. Verrebbero riassorbiti dall’Uno e, dopo un periodo di stasi all’interno della Matrice, ricomincerebbero il percorso ripartendo dalla prima densità. Noi non crediamo che essi abbiano alcuna voglia di spingersi a tanto».
La dottoressa Morinelli intervenne, ponendo una domanda:
«Quindi è un po’ come per le credenze cristiane, con il diavolo e gli angeli che non possono combattersi direttamente, ma solo tramite noi, e non possono nemmeno intervenire senza intermediari con noi, ma solo influenzarci dall’esterno, sussurrandoci all’orecchio».
RA rispose affermativamente:
«La maggioranza delle vostre credenze ancestrali, delle leggende, hanno un lontano fondo di verità. Il culto cristiano ha utilizzato questa come metafora della contrapposizione tra servitori della Legge dell’Uno tramite il servizio al prossimo e quelli tramite il servizio al sé, al proprio ego. Questo deriva effettivamente dal lavoro che noi della Confederazione e quelli della Legione abbiamo fatto per via telepatica per istruire il genere umano e spingerlo a polarizzarsi. Non è veramente importante in quale dei due poli ci si polarizza, quanto il fatto di farlo, perché così l’Uno può procedere attraverso la spirale evolutiva, altrimenti perderebbe l’opportunità del raccolto e resterebbe in quella fase bloccato per ancora molto del vostro tempo/spazio».
Avevano istituito quella seduta per ottenere rassicurazioni circa la sicurezza di familiari ed amici, ma allo stesso tempo stavano ottenendo importanti informazioni per loro stessi e per il romanzo, David ascoltava attento. Sì confrontava spesso con Don, il professore, per molte delle questioni che per lui erano oscure. Don fu sempre molto disponibile, anche se su certe di quelle questioni sembrava un po’ criptico, non che avesse qualcosa da nascondere, ma forse c’era qualcosa di cui non parlava volentieri e cercava in qualche modo di evitarlo. Un giorno il ragazzo lo affrontò di petto, dicendo che se erano informazioni importanti per la divulgazione della legge dell’Uno, lui doveva saperlo, al ché Don scoppiò in lacrime. David non ne capiva il motivo, poi il professore iniziò a parlare:
«Sai, Tom, il componente del gruppo che è scomparso prematuramente, Alex venne solo molto più tardi, beh lui era il mio migliore amico, siamo cresciuti insieme. Quando però Karla arrivò nel gruppo iniziarono i problemi, perché entrambi eravamo attratti da lei, a dirla tutta Tomà se ne era proprio innamorato. Karla però aveva iniziato ad uscire con me, quindi Tom si separò dal gruppo, fu lì, nel momento in cui era più vulnerabile, che quelli d’Orione sferrarono il loro attacco più letale. Ne avevano già sferrati in precedenza, ma avevano colpito soprattutto Karla, erano attacchi di tipo fisico provocandole malattie ed infiammazioni, ma quello verso Tom fu di tutt’altra natura. Farà male anche a te ascoltarlo, perché mi duole informarti che hanno utilizzato lo stesso metodo col tuo amico Michael. Lo avranno preso in un momento no, si saranno insinuati nei suoi pensieri, come hanno fatto con Thomas, fino a convincerlo che non valeva nulla, che nessuno lo amava, che era solo di troppo in questa vita, portandolo di fatto ad uccidersi. Lacrime silenziose sgorgavano a fiotti dagli occhi di David, il professore aveva ragione, aveva fatto male anche a lui quella storia.
La mente di David era corsa all’ultima volta in cui vide Michael, quando lui lo aiutò a preparare casa sua con i microfoni e le telecamere nascoste, si poteva dire che anche lui era stato parte attiva nel progetto. Dio solo sa quanto avrebbe voluto parlarci, chiedergli perdono.
«So a cosa stai pensando -disse il professore- ma non è assolutamente colpa tua. Sai, noi abbiamo avuto l’immenso privilegio di avere l’ultimo chiarimento con Tomà, attraverso Karla. RA ci fece questo regalo».
«Forse potrebbe farlo anche a me questo regalo!»
«Forse. Ma tu hai qualcosa che noi non avevamo»,
«Ovvero?»
«La capacità di uscire dal corpo. Nessuno di noi ne è mai stato in grado, per te invece sembra un talento naturale. Prova a raggiungerlo, questa notte. Provaci, e parlaci».
Il viso di David si illuminò davanti a questa prospettiva che non aveva considerato. Quella stessa notte sarebbe andato a cercarlo nell’altrove, ovunque lui si fosse cacciato.
«Grazie prof… Ehm, Don».
«Ha fatto bene anche a me condividere questa storia, erano moltissimi anni che era bloccata nel mio petto, a rosicarmi l’anima».
Quella notte lui ed Iris avevano fatto l’amore, era tanto oramai che non lo facevano più, a causa di tutti quei problemi. Si erano fusi l’un l’altra diventando uno. Si erano guardati, si erano visti, si erano visti dentro, i loro corpi avvinghiati l’uno all’altro li avevano portati ad un altro grado di consapevolezza, non più se stessi, ma la consapevolezza dell’altro. Il ricevere ed il donare piacere, il potere che si ha e si sceglie di non utilizzare, perché quella è la donna o l’uomo che ami, e non un oggetto pronto per darti piacere. Una simbiosi, un atto sacro, sporco solo nelle coscienze sporche di chi guarda, di chi giudica. Non era semplice sesso, ma una danza armonica che aveva portato i due ad un’unione spirituale tanto lontana dalla carne quanto dalle bassezze del mondo. Il sesso non è altro che uno strumento, lo puoi utilizzare per ascendere su piani divini o per discendere agli inferi dei giochi di potere. Forse, Iris e David, era la prima volta che si erano conosciuti davvero.
Si erano poi addormentati esausti l’uno accanto all’altra. In pace.
Arrivarono le vibrazioni, il subconscio di David, come un orologio svizzero, fu pronto a ricordargli cosa si era ripromesso di fare quella notte, andare da Michael. Si svegliò in mezzo a tutto quel vibrare, come di consueto quando ci si sta per staccare dal corpo, aspettò che queste diminuissero un poco di intensità per non sprecare inutilmente energia preziosa, ora che era carico come raramente era stato grazie all’atto sessuale da poco conclusosi. Si staccò e si stiracchiò una momento, guardando il suo stesso corpo giacere addormentato accanto alla donna che amava, era strano, ma quasi provava un lieve senso di gelosia a vedere qualcun’altro a letto accanto la sua fidanzata, anche se era lui stesso.
Distese le braccia in alto e urlò: portami da Michael!
La solita forza sconosciuta lo prese e lo sollevò portandolo alla velocità della luce nel non luogo dove stava Michael. Appena fu morbidamente lasciato atterrare, David si guardò in giro un po’ confuso. Il luogo era orribile, era notte ed era scarsamente illuminato. Era pieno di rifiuti e di materiale da cantiere, a pochi passi da lì David vide una strada ferrata, la ferrovia! Sapeva dove trovare il suo amico. Seguì la strada ferrata nella direzione che il suo cuore gli aveva indicato, fintantoché non vide un ragazzo molto alto girare vorticosamente, camminare avanti e indietro in preda ad un attacco di panico.
«Dove sono finito! Mi sono perso, aiuto!» Urlò il ragazzo alto. Era Michael, non c’erano dubbi, era proprio lui! David gli si avvicinò con cautela, appena Michael lo vide, gli corse incontro con le lacrime agli occhi e lo abbracciò
«David! Amico mio, finalmente un viso amico in questo posto oscuro. Ho paura, sento freddo, ma dove diavolo siamo finiti? È un bad trip questo? Ma cosa abbiamo preso? Non lo ricordo. Non ricordo nemmeno da quanto tempo sono qui, non so come andarmene, non so che fare!»
«Non ricordi proprio nulla? Qual’è l’ultima cosa che ricordi?»
«Ricordo di aver fumato tanto crack quando tu non c’eri, e molta ketamina alla sera per spegnermi, a proposito, stai bene adesso? Ti hanno rilasciato quelli della psichiatria?»
«Sì, ora va alla grande, ma ascolta, non ricordi proprio nulla di dopo?»
«Amico, tabula rasa, non ricordo niente»
«Ascolta, ti devo dire una cosa. Questo non è il tuo posto, ti aspetta un posto bellissimo dove devi andare, dove ti rimetteranno in sesto più bello che mai».
«David, mi stai nascondendo qualcosa»
Era difficile per David dire la verità al suo amico, già così provato, ma sarebbe rimasto bloccato lì in eterno se non avesse compreso.
«Ascolta amico mio, sai quanto ti voglio bene no?»
«Certo che lo so, dai Dado -solo lui lo chiamava ancora così- arriva al punto».
«Michael tu sei morto. Ti sei suicidato, ti sei buttato sotto un treno notturno dell’alta velocità».
L’amico, come comprensibile, restò di sasso, ammutolito, dopo poco però cominciò a replicare:
«Com’è possibile? Io non l’avrei mai fatto lucidamente, mai avrei fatto questo a mia sorella, a mia mamma. Non è da me. Sono morto? Ma che razza di posto è questo allora? E tu che cazzo ci fai qui, sei morto anche tu?»
«Credo che questo sia un limbo che ti sei costruito per aiutarti a ricordare, a comprendere. Non la vedi la ferrovia? Qui è dove sei morto».
«Incredibile, quei cazzo di treni che non mi lasciano in pace, passano ogni cinque minuti». Proprio in quel momento un frastuono pazzesco li fece sobbalzare, un treno dell’alta velocità passava velocissimo.
Poi David continuò:
«Io non sono morto, sono solo in astrale, ti ricordi che ti dicevo che facevo quei viaggi fuori dal corpo? Ecco, ti sono venuto a trovare. Comunque no, tu non l’avresti mai fatto, il tuo suicidio è stato indotto».
«Indotto? E da chi?»
«Ricordi che venivo rapito di notte, ricordi le telecamere che abbiamo piazzato in casa mia per sgamarli, che mi perseguitavano…»
«Ma chi, gli alieni?»
«Sì Michael, loro, gli alieni. Ti hanno sussurrato all’orecchio in un momento per te delicato, tu stavi sicuramente strafatto ed eri in viaggio, come il 90% del tuo tempo, e li hai ascoltati, ti sei buttato sotto al treno»
«Ma allora, ora che lo so, che ci faccio ancora qui? Non mi dovrei reincarnare o qualcosa del genere?»
«Questo non lo so, non subito perlomeno.»
Michael ad un certo punto si accorse che David stava piangendo, le sue lacrime astrali come piccoli diamanti si staccavano dal suo volto e cadevano a terra, rilucenti, fino a schiantarsi sull’erba.
«David, perché piangi?»
«Piango perché non ti rivedrò mai più».
«Ma io, in qualche modo, sarò sempre con te, non so dove andrò, non so cosa mi riserverà il futuro, ma ti prometto che ti starò sempre accanto».
Tra le lacrime David sorrise all’idea di un Michael sempre appresso.
«Sarò il tuo stalker d’ora in poi» continuò Mike, e risero entrambi a quella battuta.
D’un tratto una luce si aprì in alto alla destra di Michael. David lo abbracciò fortissimo:
«Ti voglio bene testa di cazzo, tienimi il posto al caldo per quando arrivo»
I loro corpi astrali tremolavano e vibravano come la luce di mille candele. Michael rispose:
«Certo amico mio, stai sereno. Ti voglio bene anche io. Chissà che non mi reincarno in tuo figlio!»
«Minchia bro spero proprio di no! No dai, sto scherzando, sarebbe un onore per me».
Si separarono, ed il ragazzo alto, prima perduto ora raggiante si sollevò da terra, la luce lo chiamava a sé.
«Grazie di avermi risvegliato David. Fagli il culo a quei bastardi, non mollare, fallo per me!» I loro sguardi restarono collegati fino a quando Michael sparì in quella bellissima luce opalescente.
Il suo lavoro era finito, quindi gridò ‘corpo!’, e si ritrovò all’istante nel suo letto, nel suo corpo in carne ed ossa. Abbracciò da dietro la donna che amava che era ranicchiata su di un fianco in posizione fetale. Con un sorriso beato e sollevato si lasciò cadere nel sonno. Era fiero di se stesso, e felice per Michael, l’aveva superata, era stato un grande, come sempre.
-24-
Il libro era ormai in dirittura d’arrivo, aveva costruito una storia avvincente con tutti gli ingredienti per tenere incollato il lettore: dei personaggi interessanti, una donna da conquistare ed aveva utilizzato la classica tecnica del viaggio dell’eroe che combatteva il suo antieroe, l’alieno. In mezzo a tutto questo si era prodigato a lasciare qua e la spunti e riferimenti alla legge dell’Uno e, anche se con parsimonia ché non voleva farlo diventare un saggio, aveva espresso la filosofia della legge dell’Uno e chiunque avesse letto avrebbe potuto facilmente andare a cercare il libro originario e tutta la storia, avendo molte più possibilità di polarizzarsi, ovviamente per quanto all’Uno fosse indifferente, David sperava che i lettori si polarizzassero nel lato positivo.
Scriveva e scriveva fino a quando la prima stesura non fu completata. Da lì in poi il lavoro solitario di David finì, traslocò al piano inferiore in soggiorno dove, con l’aiuto di Don e Karla rilessero e corressero il manoscritto. Don era esterrefatto, quello era un lavoro magistrale!
«David, tu sei un genio, in sole tre settimane mi hai prodotto questa storia fantastica, c’è tutto dentro, ma soprattutto spiega bene la Legge dell’Uno e dà degli indizi al lettore per poter arrivare alla fonte originale, geniale, davvero geniale».
David arrossì, sapeva di essere bravo, ma non si sentiva a suo agio coi complimenti.
Si divisero i compiti, ed ognuno riscrisse, correggendolo, un paio di capitoli alla volta. Ogni sera veniva letto un pezzo del libro davanti a tutto il gruppo, c’era chi piangeva, chi si scompisciava dalle risate, chi notava sfumature della legge dell’Uno ed implicazioni che non aveva considerato. Quelle serate in cui tutti erano presenti, perché nel frattempo la Morinelli aveva ricominciato a tornare a Torino per qualche colloquio, non poteva vivere di aria, avevano un non so ché di magico, erano tutti accovacciati nel grande soggiorno di Don, chi rannicchiato sul tappeto, chi su un divano e chi sulla poltrona. Erano tutti presi da quel romanzo e così orgogliosi da mettere in stampa un prodotto del genere. Confidavano tutti che potesse aver un gran successo quel romanzo.
Ad un certo punto Iris, che era seduta accanto a David che leggeva ad alta voce un capitolo, ribaltò gli occhi all’indietro, come di consueto quando RA cominciava a parlare.
«Sono RA, vengo nella luce e nell’amore del nostro Infinito Creatore. Sto comunicando. Sono giunto di sorpresa per complimentarmi con David e con voi tutti per il lavoro svolto sul romanzo, un lavoro eccelso. Ora dovete stare tutti più uniti e forti, gli attacchi di Orione potrebbero farsi letali. È mio dovere proteggervi e mettervi all’occorrente di un particolare che voi ancora non sapete: la Merkabah non è solo un mezzo di protezione e trasporto, ma all’occorrenza può fungere da arma, un’arma da cui in tutto l’Universo pochi si saprebbero difendere. Non sono nella posizione di spiegarvi come si possa usare a questo scopo, e non è nemmeno desiderabile voi lo sappiate, volevo solo mettervi al corrente che la Merkabah vive di vita propria, e se verrà il tragico momento nel quale questa dovrà essere usata in modalità offensiva, seguite intuitivamente le sue indicazioni».
David, non convinto, chiese a RA:
«RA, ma come faremo a capire come attaccare, anche solo per difenderci, la Merkabah non parla, come faremo a capire intuitivamente?»
«Sono Ra, vi dico che dovrete non opporre resistenza e il tetraedro stella farà ogni cosa debba essere fatta. Seguite il flusso. Nel frattempo, vediamo che i lavori di scrittura del manoscritto sono giunti al termine, è tempo di proporlo ai vostri contatti delle case editrici. Abbiamo bisogno di aziende importanti affinché il nostro compito venga apprezzato da più persone possibili. Che l’Uno sia con voi, Adonai».
Ora David era abbastanza sereno, che cosa mai poteva andare storto? Si sentiva in forma, la donna che amava al suo fianco, il professore che lo guidava con tutta la sua esperienza, cosa sarebbe potuto andare storto?
Il professore si attivò per portare il manoscritto al suo contatto della Speltrinelli, ma appena l’uomo che lavorava per la casa editrice vide Don, nonostante gli avesse dato lui appuntamento per telefono, fece una faccia inorridita e spaventata, disse solo ‘no no no’, e si dileguò il più in fretta possibile. Provarono quindi ad inviare il manoscritto con tanto di lettera di presentazione e sinossi ad ogni casa editrice a cui, per affinità della storia e delle collane edite dalla casa editrice, potesse interessare. Tutte rifiutarono con un secco no in tempo di record, ciò sta a significare che il manoscritto non venne nemmeno letto, cosa assai strana. Cosa c’era che non andava ora? Era un bel libro, coinvolgente, certo, sarebbe stato annoverato nel genere “fantascienza” quando in realtà poco di fantascientifico vi era al suo interno. Don sospettava vi fosse lo zampino di Orione, che telepaticamente aveva messo in atto un’opera di dissuasione nei confronti degli editori, e non era andato tanto lontano. Se nessuno avrebbe pubblicato il libro tutto sarebbe stato inutile, si erano offerte solo quelle tipografie mascherate da case editrici che si offrivano di pubblicare il libro a condizione che noi si desse un contributo, e che si comprasse che so, un centinaio di copie. In un momento così delicato per l’editoria non potevano permettersi di rischiare, questo era il mantra che ripetevano. Quei farabutti spillasoldi che giocavano sull’ingenuità e la voglia di farsi pubblicare di giovani autori, che così cadevano in una trappola ben congeniata.
La situazione stava veramente volgendo al peggio, senza una editore, con Orione che li marcava da vicino, passarono dei mesi senza che nulla si mosse.
David era perseguitato dagli incubi, tant’è che aveva paura addirittura ad addormentarsi, e così dormiva solo qualche ora per notte e dimagriva, di nuovo, come se avesse ricominciato a drogarsi, ma non toccava cocaina da molto ormai. La depressione dovuta alla perdita di Michael, all’inutilità di tutto il suo lavoro che non trovava sbocchi e alla perdita di senso avevano abbassato lue sue difese. Lo resero vulnerabile agli attacchi di Orione nonostante scudo e Merkabah. Perché questa funzioni, c’è bisogno che l’individuo sia psicologicamente forte ed ottimista, oppure questa si disattiva temporaneamente. Pensava ossessivamente a Michael, al fatto che fosse colpa sua che fosse morto, se lui non fosse esistito, Michael sarebbe ancora vivo. Cominciavano ad insinuarsi nella sua mente ora, minacciosi, i pensieri tossici che lo hanno accompagnato dall’adolescenza in su. Gli tornavano in mente episodi in cui faceva uso, rivedeva la bottiglia o la pipetta da crack, talvolta gli sembrava pure di sentirne l’odore. Combatteva contro se stesso per tenerli lontani, quei pensieri, ma era più forte di lui, questi tornavano ancora più ostinati a mandargli in pappa il cervello. Quella voglia, quella voglia irrefrenabile era tornata, non pensava più ad altro ormai. E se era Orione che gli innestava quei pensieri e che faceva leva sulla sua dipendenza? Questo non lo sapeva. Fatto sta che non ne parlò con nessuno, in parte se ne vergognava, e poi non voleva dare altri problemi.
L’idilliaco periodo che avevano vissuto era ormai finito, schiantatosi contro la sordità dell’editoria italiana. Don e Karla avevano cominciato a litigare, ed anche tra Alex ed Amanda si era in una posizione di stallo, in cui ciò che sembrava ovvio fino al mese prima, ovvero che avrebbero avuto una storia di una certa rilevanza, ora era tutto in forse. Lui ed Iris non erano ancora entrati in un periodo di crisi, ma questo sarebbe giunto se lui fosse ricaduto. Il fatto è che si sentiva impotente di fronte a questo craving inarrestabile, ovvero questa potentissima voglia che gli chiudeva la bocca dello stomaco, lo faceva vomitare ed andare di corpo al solo pensiero della sostanza, è questo ciò che fa la cocaina, non darà dipendenza fisica come l’eroina, ma la dipendenza psicologica aveva eccome degli effetti fisici per niente piacevoli, uno di questi era l’ansia, il non riuscire a concentrarsi su altro che non fosse come rimediare altra coca. Il suo migliore amico era da poco morto e lui non faceva che pensare alla droga? Si faceva schifo da solo, non aveva nessuna stima di se stesso.
Forse avrebbe dovuto chiedere aiuto, parlarne con Don, con Amanda, perlomeno con Iris, ma non lo fece, si ripeteva che andava tutto bene, e quell’andare tutto bene non fece altro che ricacciarlo nel baratro della dipendenza, un’altra volta.
«Hey, sono David, ci sei?»
«Sì ci sono, quanto?»
«Cinque di lavata e due di roba»
«Fra dieci minuti al 54 di via Saluzzo, vieni solo»
«Ok, a dopo»
David, con una scusa, aveva fatto ritorno a Torino, aveva chiamato uno dei tanti contatti dei nigeriani che spacciavano ad ogni angolo di quel quartiere, San Salvario, in pochissimo tempo era fornito. Dopo nemmeno venti minuti che era arrivato in stazione Porta Nuova, già aveva tutto il materiale gli servisse. Corse a prendere la metro fino in stazione e poi il quattro, il tram di Torino più pazzo e pericoloso a causa della sua variegata e multietnica clientela. Finalmente nella sua zona, Porta Palazzo, corse veloce a casa sua, era identica come l’aveva lasciata. Preparò in fretta una bottiglia con stagnola, stuzzicadenti ed una penna, si era autoprodotto una pipa ad acqua da crack efficiente e facile da costruire. Era concitatissimo, sudava copiosamente per la voglia inarrestabile che aveva. Finalmente riuscì a produrre tutta la cenere di cui aveva necessità, quattro sigarette si fumavano da sole sul tavolino, mise un pezzo di pietra sulla stagnola piena di cenere, all’imboccatura della bottiglia, prese l’accendino ed accese la scoppiettante sostanza, crack appunto, onomatopeicamente parlando. Tirò una lunga boccata, il fumo bianco dal forte odore chimico riempì la bottiglia ed il cannello che era stato prodotto con una penna. Appena i fumi tossici furono dentro di lui, riempiendogli i polmoni, lui li trattenne il più possibile e quando fu sul punto di espirare, una voce sembrò sussurrargli all'orecchio: visto? Ti abbiamo fottuto un’altra volta!
Espirò e la testa parve scoppiare, le orecchie fischiavano prepotentemente, e quella che avrebbe dovuto essere una fantastica sensazione di piacere, si trasformò invece in una paura cieca, in una frustrazione pesante ed angosciosa, aveva fallito, aveva gettato la spugna, dentro di sé gridò: aiuto! Quella puttana della cocaina lo aveva nuovamente acchiappato, come avrebbe fatto questa volta a superare quel momento, a rialzarsi? Paradossalmente, ma non per un tossico, mentre pensava queste cose, caricava nuovamente la bottiglia, di cenere fresca e crack. Gli sembrava che sarebbe rimasto per sempre incastrato in quell’eterna operazione che ti svuotava dentro, ti toglieva la voglia di vivere, ti rubava l’anima. A chi avrebbe potuto chiedere aiuto?
Dopo la terza fumata si abbandonò sul divano, estrasse l’eroina, bianca, tailandese potentissima, e con le schede stese qualche riga. Ne inalò una e tentò di rilassarsi. Appoggiò la sua rigida schiena sullo schienale, aspettando che la roba facesse effetto mitigando l’ansia della cocaina. Chiuse gli occhi e quello che vide fu il famoso simbolo egizio, l’occhio di RA, ed una voce gli parlò:
«La droga abbassa le tue difese, rende quasi inutile ed inefficace la tua Merkabah. Sei sotto l’attacco di Orione adesso, ti hanno attaccato con la loro classica tecnica del cavallo di Troia, non lasciarti soggiogare, non ti potremmo aiutare sennò»
L’eroina cominciò a fare effetto, e lui di tutta risposta si caricò l’ennesima fumata di crack, aveva dato anima e corpo per quel progetto e tutto sembrava andare storto, Michael, la ricaduta, i continui attacchi della Legione, lui non voleva drogarsi, non voleva fare quella fine, ma era più forte di lui! La droga lo controllava. O era Orione?
Iris aveva una strana inquietudine in fondo al cuore, come un presentimento, qualcosa stava andando storto, ma cosa? Nell’orecchio destro una voce le parlò:
«David è in pericolo, è sotto un pesante attacco di Orione, lo hanno fatto ricadere nella droga e gli stanno innestando pensieri negativi, c’è la possibilità/probabilità che lo perderemo, ha bisogno del tuo aiuto»
Iris, piangendo, urlò al nulla:
«Ma non so nemmeno dove sia!» Al ché la voce rispose:
«A Torino, nel suo appartamento, corri Iris!»
La ragazza parlò con Don e Karla, presero l’auto di Don e a tutta velocità corsero in direzione Torino. Erano tutti preoccupatissimi, ma per la prima volta dopo mesi, il gruppo si stava ricompattando, per una buona causa: salvare David da se stesso e da Orione. Fortunatamente non incontrarono polizia o carabinieri, perché correvano molto al di sopra dei limiti consentiti, ed in poco più di un’ora e mezzo arrivarono sotto casa e parcheggiarono.
Salirono le scale ed entrarono nell’appartamento, un’odore di plastica bruciata che dava la nausea si propagava fino a fuori il giro scale. Entrarono e lo spettacolo li traumatizzò. David con la testa riversa all’indietro, le labbra cianotiche ed il viso dal colorito bluastro, voleva dire una cosa solamente: overdose. Uscirono tutti fuori di testa ed andarono in panico, Don andò a controllare se fosse ancora vivo ma non sentiva il battito, forse c’era ma impercettibile, quindi cominciò le operazioni di rianimazione, massaggio cardiaco e insufflazione in bocca di aria, nel frattempo Iris corse in bagno, nell’armadietto dei medicinali, sapeva bene cosa cercare. Dio fu dalla loro parte, vi trovò all’interno una siringa da inframuscolo nuova, che teneva in casa per quando il mal di denti poteva essere placato solo con un farmaco inframuscolo, ed il narcan, il farmaco antagonista per gli oppiacei. Se c’era ancora speranza, quello lo avrebbe resuscitato. Corse in soggiorno sbattendo poi contro il tavolino che fece cadere la bottiglia da crack e due involucri blu che contenevano i pezzi da trenta euro l’uno di eroina che David, pulito e vulnerabile, si era stupidamente pippato tutto. Iris porse la siringa e la fiala di naloxone al professore, arrivò in quello stesso momento la Morinelli, avvisata mezz’ora prima da Iris, vista la situazione non ci pensò due volte a toglier dalle mani del prof la siringa e la fiala, spezzò il beccuccio della fiala ed aspirò tutto il contenuto della siringa, mentre Don ricominciava il massaggio cardiaco. Trovò subito la vena e sparò tutto il contenuto, David ebbe come uno scossone e si risvegliò annaspando aria come qualcuno appena salvato dall’annegamento. Il naloxone aveva completamente annullato gli effetti dell’eroina, la realizzazione di ciò che ha rischiato e la paura fecero il resto, si sentì lucido come raramente in passato. Lo spettacolo che ebbe davanti agli occhi fu Iris piangente, e poi tanta, tanta desolazione. Lui avrebbe voluto scomparire, e la sua fidanzata, tra le lacrime gli urlò:
«Stavi morendo cazzo!»
David non seppe che dire e scelse di restare in silenzio, in un rispettoso e comprensivo silenzio. Avrebbe capito anche se avessero deciso di lapidarlo sulla pubblica piazza. Don e Karla lo aiutarono ad alzarsi e Don gli chiese se avesse ancora della droga, al ché il ragazzo, senza rispondere, estrasse dal taschino dei jeans due pezzi di crack e si diresse verso il bagno, li butto nel gabinetto e tirò lo sciacquone, poi, verso Don:
«La droga l’ho finita».
Non si sarebbe potuto dire a quel punto se quell’episodio li avrebbe uniti ancor di più o li avrebbe divisi, l’uno contro l’altro. Iris venne incontro a David e lo abbracciò fortissimo sussurrandogli all’orecchio:
«Sei qui, sei ancora qui, qui con me. Non andartene, ti prego amore mio, non ascoltare Orione, sappiamo che ti stavano plagiando e manipolando. Ormai li conosciamo».
«Su, forza, torniamo al lago, lì starai sicuramente meglio che qui. Anzi, a dirla tutta dovresti trasferirti, casa nuova, aria nuova, vita nuova -disse Don intromettendosi nel discorso- vedrai, ce la puoi fare».
-25-
Fu la seconda volta che David venne portato a casa di Don per rimettersi in sesto. Questa volta la caduta fu tragica, non arrivò solo ad un passo dalla morte, lui ci saltò dentro a piedi pari e fu solo per una fortuita concatenazione di eventi che David era ancora vivo e vegeto, tra loro.
Nella bellissima villa sul lago, David venne messo a regime, una dieta detox per purificare il corpo, ma molto nutriente, molto riposo e tanto, tantissimo calore umano. Iris non se la prese per quella ricaduta, capiva quanto la manipolazione di Orione giocasse un ruolo fondamentale nell’overdose del suo ragazzo. Gli stava vicino e lo curava con tanta attenzione ed amore, amore che sembrava essere l’unica medicina di cui lui davvero necessitasse. Migliorava giorno per giorno, a vista d’occhio. Ma c’era ancora qualcosa che non andava in lui. Il suo libro. David era l’ago della bilancia, la punta di diamante, non potevano permettersi di perderlo. Il fatto che il suo libro, sul quale aveva riposto tante speranze, non interessasse a nessun editore e che lo avevano snobbato così, lo aveva distrutto dall’interno. Lui era consapevole del suo valore, anche il gruppo lo riconosceva, perché mai allora gli editori facevano così tanto i preziosi?
«Amore mio, vedrai, il tuo valore verrà riconosciuto, il tuo libro sfonderà, ne sono certa». Continuava a ricordargli Iris, ma lui sospettava fosse solo un punto di vista influenzato dall’amore che provava per lui. Lei invece se lo sentiva davvero, e avrebbe fatto di tutto perché andasse così.
Per quella sera era programmata una seduta con RA, si doveva fare il punto della situazione, studiare una nuova strategia perché, evidentemente, quella in atto non funzionava un granché.
Alle otto di sera precise, erano tutti nel soggiorno, una grande sala. Era presente anche Amanda, che era solita fare ritorno ogni giorno dopo il lavoro perlomeno fino a quando la situazione con Orione non si fosse stabilizzata. Iris era sdraiata sul lettino al centro della sala, il solito Yogananda sul leggio, così RA cominciò a parlare:
«Sono RA, vengo nella luce e nell’amore dell’Uno Infinito Creatore, sto comunicando».
Come sempre, fu Don a parlare:
«Ti abbiamo convocato qui stasera perché avevamo delle domande che vorrei porgerti. Nessun editore ha accettato il nostro libro, e questo è molto ma molto male per la nostra missione, poi David ha avuto un periodo di depressione, cosicché la sua protezione e la sua Merkabah si sono indebolite ed Orione ha potuto sferrare il suo attacco, portandolo di nuovo a fare uso di droghe in una maniera spropositata, arrivando all’overdose. Fortunatamente siamo arrivati in tempo, grazie alla tua segnalazione ad Iris il gruppo è ancora integro. Che cosa dobbiamo fare? Perché la situazione è bloccata?»
«Sono RA, alla prima domanda non posso dare risposta, nel libero arbitrio voi soli potete e dovete decidere il da farsi, vi darò però qualche importante informazione che vi aiuterà nella decisione. Abbiamo intercettato il gioco sporco, come siete soliti esprimervi voi umani, di Orione. Abbiamo scoperto che la Legione sta attuando delle attività di suggestione telepatica nei confronti degli editori. Per questo voi vi siete ritrovati tutte le porte chiuse in faccia. Ora la strategia da attuare, considerando che Orione ha violato la distorsione della Legge dell’Uno sulla non interferenza, ha dato a noi in minima parte la possibilità di replicare su medesimi campi di battaglia, quindi abbiamo concordato con la Confederazione Intergalattica dei Pianeti la possibilità di attuare anche noi un opera di suggestione telepatica, ma su un unico editore, di più non è concesso, sicché si andrebbe ad annullare l’effetto della suggestione di Orione, e questo diverrebbe libero di decidere se accettare o meno di pubblicare il vostro libro.»
«E quale sarebbe l’editore?» Chiese curioso David.
«Nondadori» fu la risposta.
David continuò:
«Ma allora abbiamo poche possibilità di essere pubblicati!»
«In base a quale dato fai questa affermazione? -rispose RA- noi intravediamo nel prossimo futuro un’ottima predisposizione del tempo in quanto a possibilità/probabilità di venire pubblicati».
«Davvero?»
«Non capiamo la domanda. Riformulare per favore».
«Non c’era nessuna vera domanda, se non il chiedere la riconferma sul fatto delle buone possibilità di essere pubblicati»
«Riconfermiamo, sono ottime le possibilità di essere pubblicati».
David non ci stava più nella pelle dalla gioia, finalmente aveva concluso un romanzo e finalmente, se tutto andava nel verso giusto, sarebbe stato pubblicato, e da un’importante casa editrice!
Quella sera, dopo la seduta con RA, scelsero di uscire a fare una passeggiata, bersi una birra sulla spiaggia. Erano tutti ottimisti ed euforici. L’atmosfera era bellissima, il lago e la vegetazione attorno sembravano un quadro impressionista, solo un Monet od un Renoir avrebbero potuto rendere giustizia alla bellezza di quel posto magico. Bevvero tutti qualche birra di troppo, ed erano tutti e sei brilli, ma felici. Cosa sarebbe potuto andare storto? Ma quando qualcosa può andare storto, allora quel qualcosa andrà storto. L’alcol aveva in minima parte interferito con lo scudo di protezione, e questo attirò come miele per le api due ricognitori di Orione, due enormi apparecchi triangolari e silenziosi furono sopra di loro in un baleno, quando David se ne accorse urlò agli altri inorridito:
«Ragazzi, sono tornati!»
I triangoli neri emisero un fascio di radiazioni che scorreva sul terreno cercando di investire loro. I sei scapparono nella vegetazione cercando di nascondersi grazie agli alberi. Il fascio di radiazioni letteralmente friggeva qualsiasi cosa esso toccasse. Quando Don vide ciò, capì che se non succedeva qualcosa, un miracolo, sarebbero tutti morti. Facevano sul serio quella sera, era l’unico, o meglio, l’ultimo momento in cui potevano evitare che il libro venisse pubblicato.
Poi successe qualcosa, qualcosa che stupì tutti, una voce parlò in fondo all’anima di ogni persona del gruppo, Alex ed Amanda sentirono chiaramente: ‘scappate nella boscaglia senza guardarvi indietro. Fidatevi, i vostri amici ce la faranno’. E così fecero senza battere ciglio, per gli altri quattro invece fu tutta un’altra storia.
Don e Karla, David ed Iris, sentirono chiaramente qualcosa parlare direttamente a loro dal fondo di se stessi. ‘Ora lasciatevi guidare, la Merkabah farà tutto il resto’.
E così fu, i quattro tetraedri stella si attivarono contemporaneamente, le controrotazioni di quelle che erano a tutti gli effetti delle piccole piramidi a tre lati cominciarono a produrre una vibrazione sincrona potentissima, e con questa un vento fortissimo che piegò le chiome degli alberi. Le quattro stelle si fecero luminosissime e come in una coreografia cinematografica fatta di effetti speciali, si alzarono da terra di qualche metro, con i possessori al loro interno in uno stato a metà tra la trance e l’estasi. A coppie, Don e Karla e David ed Iris, o meglio, le loro Merkabah, si spostarono saettando ad una velocità folle ai lati degli apparecchi volanti e presero una posizione a forma di croce. Li avevano accerchiati. I triangoli reagirono investendo col fascio di radiazioni le quattro stelle, ma ciò sembrò non fare la minima differenza. Una fortissima luce multicolore partì dalla stella di Don e si collegò a quella di Iris alla sua sinistra e come uno specchio riflettente la luce passò a Karla, che stava in direzione perpendicolare a suo marito, questo fascio poi continuò -il tutto si svolse in qualche manciata di secondi- ed arrivò a David che poi lo rinviò a Don da cui tutto era partito. Ora erano tutti e quattro collegati, e il fascio di luce che li collegava creava un rombo dai sovraccarichi colori di un arcobaleno, che solo dall’alto sarebbe potuto essere visibile. Ci fu un attimo di stasi poi la vibrazione divenne molto più potente e creò una sfera d’oro che inglobò i due mezzi spaziali, si senti il rumore di mille cascate che si alzava di tono, la terra vibrò e l’acqua dalle sponde del lago si ritrasse di una decina di metri creando una specie di muro d’acqua. Poi, una cosa che sconvolse la cittadina che non seppe mai spiegarsi l’accaduto, un enorme flash di luce bianca illuminò a giorno i dintorni per chilometri, ed un secondo dopo un boato di dimensioni bibliche spazzò via letteralmente i primi alberi della boscaglia e quella sfera d’oro compresse ad un’estrema velocità i triangoli neri, che vennero così portati ad implodere creando un piccolo buco nero dal quale vennero risucchiate le misere particelle che rimanevano di quei mezzi. Poi fu silenzio. Istantaneamente la vibrazione mostruosa cessò, ma subito dopo il muro d’acqua cadde su se stesso creando un altro, anche se mille volte minore, fragoroso boato e le sponde tornarono normali. Le quattro stelle lentamente persero luminosità e atterrarono dolcemente, come fossero delle grandi piume, e si appoggiarono al suolo e scomparvero, lasciando i corpi dei quattro amici privi di coscienza. Bastarono una manciata di secondi perché si svegliassero, si guardarono tra loro ma non seppero dire alcunché. Erano scioccati, frastornati, sconvolti. Ma li avevano vinti. Si avvicinarono l’uno all’altra e gli uomini abbracciarono sollevati le loro donne. Era ora di tornare a casa, li avevano battuti, o meglio, la Merkabah aveva fatto tutto. Allora c’era più di qualche speranza!
-26-
L’indomani, con lettera di presentazione e sinossi, David spedì di tutta fretta il manoscritto alla Nondadori. Doveva muoversi, doveva accelerare i tempi, anche se dubitava dopo ciò che era successo in spiaggia che Orione ci avrebbe riprovato.
Con ansia e trepidazione aspettarono una risposta, i secondi parvero minuti, i minuti ore, le ore anni. David passò quel tempo con Iris, che a causa di tutta quella faccenda aveva a dir poco trascurato. Tutte le vite di tutti loro coinvolti erano entrate in standby. Il lavoro, gli studi, tutto era stato messo da parte, e solo grazie alla generosità di Don, una persona benestante, non si sono dovuti preoccupare di nulla a livello economico. Don era diventato un po’ il padre o lo zio saggio di ognuno di loro, ed i ragazzi si chiedevano che fine avrebbero fatto se non lo avessero incontrato. Si rivedevano molto in lui e Karla, loro avevano perso Tom, David ed Iris invece Michael. Tutti e quattro erano stati presi di mira da una potenza interplanetaria, quattro poveri e miseri esseri umani contro un impero, ma che speranze credevano di avere? Eppure ci credevano, sapevano di essere venuti al mondo per questo confronto, per spostare l’ago della bilancia dal negativo, o neutro, al positivo. David ora sapeva. Sapeva intimamente che il suo libro avrebbe innescato una reazione a catena di eventi impressionante, un libro, un film, possono avere un impatto considerevole sulla coscienza mondiale se ben distribuiti, e la Nondadori era di certo una di quelle case editrici che in quanto a visibilità e distribuzione, non era seconda a nessuno in Italia. E se loro avessero accettato? Se il libro avesse avuto successo, come sarebbero cambiate le loro vite? Avrebbero potuto sistemare se stessi ed i loro famigliari, sarebbe stato bellissimo.
Passarono le settimane senza alcuna risposta dalla casa editrice, loro si facevano sempre più nervosi, ma cercavano, attraverso la meditazione, le lunghe passeggiate sul lago e lo stare insieme, di non perdere l’armonia, di non permettere ad Orione di superare le loro difese, non sarebbe più dovuto accadere, mai più!
Passò altro tempo, in tutto all’incirca un mese e mezzo, da quando avevano spedito il manoscritto, e un mattino, erano le dieci e mezzo, il cellulare di David segnalò l’arrivo di una mail. Ne arrivavano sempre tante, molte in automatico dai social network, quindi senza troppa fretta David prese il telefono e lo sbloccò, quando vide nella notifica della mail la parola “Nondadori” sentì il suo cuore accelerare considerevolmente, non aveva il coraggio di leggere ma si fece forza e la aprì. Lesse avidamente e più leggeva più la stanza sembrava girargli vorticosamente attorno. Non ci poteva credere, avevano accettato! Incredibile, fantastico, super! Gli davano appuntamento per la settimana successiva per discutere i dettagli del libro, della sua pubblicazione e per firmare il contratto. David non stava più nella pelle dalla felicità, era la prima volta in vita sua che aveva concluso qualcosa, che era arrivato ad un successo vero. Da lì in poi le cose travolsero i ragazzi, il tempo sembrò volare, firmarono il contratto, vennero apportate poche e poco significative modifiche al testo e poi venne messo in stampa, passò qualche mese in cui loro si tennero al protetto da Orione fino a che il libro arrivò in tutte le librerie. Il titolo coinvolgeva fin da subito: “Oltre la vertigine della follia”, la grafica della copertina anche, dove, in un’oscura ambientazione, era stampato un grande ospedale psichiatrico, con un ragazzo che osservava da dietro una finestra sbarrata, e sopra l’edificio, minaccioso ed inquietante, stazionava un enorme ufo triangolare.
Il libro fu un caso editoriale, le vendite erano altissime, tant’è che finirono quasi subito le scorte delle librerie e la Nondadori dovette stampare a pieno regime altre copie. Ne parlarono alla TV, nelle radio, la legge dell’Uno all’interno di quel romanzo si propagò prima in Italia, poi venne tradotto in ben dodici lingue, e come aveva avuto successo in Italia così fu negli altri paesi europei e negli Stati Uniti. Un gigante del settore dei prodotti audiovisivi online, Setflix, comprò i diritti cinematografici del libro per una futura serie tv. David cercò in ogni modo di non restare investito dalla popolarità, fu molto schivo con i media, rilasciò solo qualche intervista per la tv e per dei giornali, ma non aveva la benché minima intenzione di diventare la nuova star da salotto televisivo. Meno veniva visto e meglio era, voleva godersi il frutto del suo lavoro viaggiando, ma anche aiutando gli altri. Aveva condiviso il 50% delle sue entrate con il suo gruppo, sicché si sistemarono tutti.
Una discreta percentuale delle persone che lessero il libro ne furono completamente cambiate, furono toccate nell’anima, e cambiarono la loro condotta di vita. Prima col libro, poi con la strepitosa serie tv di Setflix, l’ago della bilancia mondiale si spostò, e di molto. La reazione a catena scatenata dal libro aveva portato molte di quelle persone neutre a spostarsi nel lato del servizio al prossimo, superando quel famoso 51% per poter essere raccolti nella densità successiva, e addirittura una piccola parte di quelli orientati negativamente che lo lessero si spostarono nella zona neutra. A quello stato delle cose, Orione non poté più, non perlomeno con i suoi eserciti di terza e quarta densità, attaccare il gruppo ed anche il suo lavoro con i terrestri fu di molto ridimensionato.
I ragazzi avevano fatto un lavoro esemplare, e David era passato dall’essere un commesso tossicodipendente e psicotico col pallino inconcludente per la scrittura ad un riconosciuto scrittore di fantascienza, un giovane Philip K. Dick del terzo millennio.
Cos’altro avrebbe potuto chiedere dalla vita? Dei bambini? Certamente, più in là.
Ora lo sapeva cosa fosse quel vuoto che lo aveva attanagliato e da cui si era finalmente liberato, ora non aveva più alcun motivo di nascondersi dietro ad una droga per distrarsi da quel buco dentro. Ora lui era completo. O quasi.
IL SUICIDIO
Le statistiche ci dicono che la maggior parte dei suicidi sono, tendenzialmente, di giovani adulti, in molti casi uomini, dai venti ai trent'anni. Nella stessa fascia d'età riscontriamo la comparsa di malattie mentali annichilenti, come la schizofrenia, e ancora prima disturbi della personalità quali il diffusissimo "borderline", che colpisce nella prima adolescenza. Innumerevoli sono le variabili nella causalità di tali fenomeni, che è praticamente impossibile stabilirne una regola, spesso però i casi in questione hanno in comune lo stress della madre in gravidanza, infanzie difficili, punti di riferimento assenti o ad intermittenza, vuoti affettivi, traumi precoci, violenze fisiche, psicologiche e sessuali. Nonostante la mole di dati scentifici a disposizione, che però, a differenza della matematica, non possono offrirci delle prove empiriche certe (vi sono storie individuali in cui tutte le variabili menzionate
sono presenti, ma ciò non è necessariamente sfociato in un suicidio) continua ad assillarci la solita ed incessante domanda, ogniqualvolta la vita ci ripropone la perdita di una persona cara in questo modo tanto brutale: perché?? Un particolare giorno della nostra storia di vita ci rendiamo conto di esistere, così, dal nulla, e necessariamente arriverà il momento in cui prenderemo consapevolezza che la nostra permanenza su questa terra non è eterna. Non c'è un'apparente risposta, ci viene detto che è così, e ci costruiscono fantasiose e favoleggianti versioni sopra questo mistero, non si sa bene se è per alleviare la nostra inquietudiene di bambini curiosi, o la loro di adulti, confusi almeno quanto noi. La morte di per sé lascia sgomenti, ma il suicidio, beh il suicidio ci lascia interdetti, oltre alla confusione ed allo strazio sopraggiungono emozioni violente, di incapacità di comprensione, di un egoistico sentimento di offesa della nostra persona, perché nel caso specifico vi è la più o meno lucida scelta. Ci tortura il pensiero che, nel sentiero di qualcuno che in qualche modo sentivamo "appartenerci", è apparso un bivio, un fifty fifty di probabilità, e la decisione presa non ha considerato il NOSTRO dolore, il nostro renderci orfani di una vita per noi inestimabile, ma chi la possedeva, questa vita, non la pensava alla stessa maniera, in quel fatidico istante che, nel deserto che ha lasciato attorno a sé, si è fossilizzato nell'ineluttabilità. La rabbia che non riesce a direzionarsi verso l'oggetto del nostro amore, di cui ci sentiamo ingiustamente derubati, si ripercuote su noi stessi, e forse a ragione, perché noi, nell'istante in cui quel "nostro" qualcuno sceglieva un faccia a faccia con un treno, od anziché ancorarsi alla vita si è aggrappato ad una corda implorandogli la morte, noi passavamo i nostri banali momenti nella vita d'ogni giorno, a correre appresso a futili e fugaci desideri del momento, quando quei momenti sarebbero stati inestimabili per la vita di qualcun'altro, oltre che per la nostra. Se solo l'avessimo saputo. Se solo avessimo preso in mano quel telefono anziché dire "lo faremo poi". La mente umana non ha l'oggettiva capacità di comprendere il concetto di "mai più", di "per sempre", di "inesorabile", perlomeno si ostina nel non volerlo accettare. Il mio percorso di vita, sempre volto alla ricerca di risposte che vanno oltre alla possibilità d'adottare il metodo scientifico galileiano, mi ha portato a raggiungere delle più o meno condivisibili consapevolezze, radicate oramai nel mio intimo, sulla collocazione che abbiamo nel disegno perfetto dell'Universo, che non è a mio avviso conseguenza di una concatenazione fortuita di cause, ma figlio di se stesso, Essere Assoluto, e di un ben preciso piano, con una propria ragion d'essere. Il caso non esiste, e per citare il titolo di un mio lavoro ancora work in progress: "Il caso è premeditata coincidenza", e ciò va infinitamente oltre la nostra capacità di comprensione, ma ciononostante ne rispetto l'ordine e le rigide fattezze. E così, pur con estrema difficoltà e dolore, devo accettare l'inesorabilità delle scelte altrui, e se, come io penso, l'uno è nel Tutto, ma il Tutto è nell'uno, ogni decisione, per quanto lontana dal nostro più immediato benessere, segue le norme di un ordine superiore che non può non esistere che in favore di un Bene Ultimo, di un Bene Supremo. Addio amici miei, o meglio, arrivederci.
CIAO JACOPO, CIAO VLADIA!!!
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